L'occasione
perduta
L'esercito Italiano
tra il 1923 ed il 1933
Relatore
Andrea Fogari
All’indomani della Prima guerra mondiale, le
potenze europee evidenziarono atteggiamenti differenti nell’elaborare
e sfruttare le Lezioni Apprese dal conflitto. Come spesso accade nella
storia, i Paesi sconfitti (Russia e Germania in primis) dimostrarono
infatti una grande capacità di sfruttare alcune delle novità
emerse nell’ultimo scorcio della Grande Guerra, come l’importanza
della nascente componente corazzata e della penetrazione a opera di
nuclei di uomini altamente addestrati. Al contrario le potenze vincitrici,
uscite esauste dal conflitto, sembrarono adagiarsi sul successo ottenuto,
sottovalutando le enormi potenzialità offerte dalla recente evoluzione
tecnologica.
In tale quadro, l’Italia non fece eccezione. La straordinaria
prova di carattere nella Grande Guerra generò paradossalmente
alcuni frutti avvelenati che inficiarono il successivo sviluppo delle
Forze Armate. In particolare, la frattura tra mondo militare e politico,
l’eccessiva fiducia nelle proprie capacità, la convinzione
– già risorgimentale e di derivazione garibaldina –
che il personale di leva (in particolare, gli Ufficiali di complemento)
fosse da preferire a quello di carriera. In tal modo, l’Esercito
italiano, mirabilmente riorganizzato nel 1918, si ritrovò fatalmente
condannato a compiere passi indietro, anziché in avanti.
Dopo i burrascosi anni dell’immediato dopoguerra, nel cruciale
decennio 1923-‘33 i vertici militari, divisi tra “modernisti”
e “passatisti”, non riuscirono a concepire un solido e coerente
modello di Difesa. Ciò avrebbe richiesto la capacità di
adeguare la dottrina e l’ordinamento delle forze alle recenti
innovazioni tecnologiche, comunque vincolate alla cronica carenza di
risorse a disposizione. Invece, ci si concentrò su una serie
di riforme che, dall’ordinamento Diaz del 1923 alla nomina del
generale Federico Baistrocchi a sottosegretario della Guerra nel 1933,
non fecero altro che disfare quanto deciso con i provvedimenti precedenti.
Ignorando, oltretutto, le idee innovative di alcune tra le menti più
brillanti del panorama militare europeo, primo tra tutti il generale
Douhet e il suo Dominio dell’aria, o le spinte verso una vera
integrazione in senso interforze.
Nonostante il culto della modernità sbandierato dal fascismo,
le Forze Armate persero così l’occasione di promuovere
efficienza e innovazione. Al tempo stesso, non bisogna trascurare0 gli
importanti successi (quanto illusori) ottenuti sul breve periodo dalla
politica estera e militare italiana, come rilevato ad esempio da un
analista del calibro di Edward Luttwak. Successi destinati però
a crollare come un castello di carte alla prova dei fatti.
Le trasformazioni – spesso schizofreniche – avvenute tra
il 1923 e il 1933 non risparmiarono gli Alpini: dopo la lievitazione
organica nella Prima guerra mondiale, si sarebbe assistito a un ridimensionamento
per poi passare a una nuova espansione, fino ad arrivare – ma
siamo già nei pieni anni ’30 – alla configurazione
su cinque Divisioni con cui le Penne nere avrebbero affrontato il secondo
conflitto mondiale.
Ma il decennio 1923-’33 non fu solo un momento di trasformazioni:
l’Esercito affrontò con successo varie operazioni, tra
cui la riconquista della Libia rappresentò senz’altro la
sfida più alta e di maggior successo.
In conclusione, un momento cruciale per comprendere la dissipazione
del patrimonio accumulato nella Prima guerra mondiale e le premesse
delle gravi criticità evidenziate nella Seconda. Un periodo caratterizzato
da un vivace dibattito culturale e dottrinale che, tuttavia, non si
tradusse in un modello di Difesa integrato, efficiente e moderno. Purtroppo,
un’occasione sprecata.
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