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Giunta
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USA
E GRANDE GUERRA: I VERI "PERCHÉ"
DELL'INGRESSO NEL CONFLITTO
Gli alpini milanesi del Comitato per il Centenario hanno realizzato un'altra
serata di grande interesse storico. Il professor Andrea Saccoman ha scandagliato
le ragioni della fine del neutralismo statunitense.
Un secolo fa gli Stati Uniti erano tutt'altra cosa rispetto
alla grande potenza di oggi. Allora era l'Europa il centro del mondo.
Quell'Europa che, con le sue appendici coloniali, raggruppava l'84 per
cento delle terre emerse. «Cento anni fa in Africa due soli Stati,
Liberia ed Etiopia, erano diplomaticamente indipendenti e "autorizzati"
a una politica estera autonoma. Il resto del Continente Nero era spartito
fra britannici, portoghesi e francesi» ha rimarcato, certo di colpire
l'uditorio, il professor Andrea Saccoman dell'Università Bicocca
di Milano, docente di storia militare, relazioni internazionali e storia
politica dell'Italia contemporanea.
Occasione della sottolineatura è stato l'incontro dello scorso
15 giugno nella Sala "Dante Belotti", del gruppo Alpini Milano
Centro, in via Rovani, per l'ultimo appuntamento pre-estivo organizzato
dal Comitato per il Centenario nel quadro delle serate culturali dedicate
alla rievocazione, un secolo dopo, della Prima Guerra Mondiale. Il tema
era particolarmente gustoso ("Gli Stati Uniti entrano nella Grande
Guerra") e il relatore prometteva avvincenti argomentazioni e riflessioni.
«Pendiamo dalle sue labbra» ha fornito scherzosamente l'incipit
al professor Saccoman il presidente del Comitato, l'avvocato Alessandro
Vincenti. «Ci sarebbero mille cose da dire; io ne ho scelte alcune»
è stato al gioco il relatore.
Che inizia disegnando un "fermo immagine" del 1913, un anno
prima che tutto precipiti.
«Il Vecchio Continente è il perno del mondo: la Gran Bretagna
è la prima potenza mondiale navale e la Germania la prima industriale.
Gli americani più abbienti mandano i loro figli a studiare in Europa»
comincia ad inanellare Saccoman. «E i traffici commerciali fra le
due sponde dell'Atlantico sono molto intensi: le esportazioni verso la
Germania valgono 352 milioni di dollari dell'epoca, quelle verso la Francia
poco meno della metà e quelle dirette in Gran Bretagna toccano
l'apice di 591 milioni di dollari. Il volume delle esportazioni statunitensi
è quasi sempre doppio delle importazioni e Washington è
in affari anche con l'Austria-Ungheria e la Turchia».
Con simili premesse commerciali non stupisce che, al deflagrare del conflitto,
gli Stati Uniti assumano un atteggiamento convintamente neutrale. Se ne
fa interprete il presidente Wilson. «Il nostro popolo discende dalle
nazioni in guerra, da tutte le nazioni belligeranti» fa notare,
con ovvietà, il presidente statunitense. «È naturale
quindi che fra noi ci siano simpatie diverse e opposte speranze. Sarebbe
facile eccitare passioni e difficile placarle. Ma sarebbe sbagliato. Ogni
uomo che ami davvero l'America dovrà parlare interpretando il vero
spirito della neutralità, pensare al proprio Paese e ai suoi interessi
più autentici».
Torna così in auge la dottrina Monroe, elaborata da John Quincy
Adams e pronunciata da James Monroe al messaggio annuale al Congresso
il 2 dicembre 1823, dottrina che esprimeva l'idea della supremazia degli
Stati Uniti nel continente americano e sanciva la volontà degli
USA di non intromettersi nelle dispute fra le potenze europee. In termini
meno soft il concetto lapidario di Wilson era "abbiamo fatto la guerra
d'indipendenza per liberarci del legame con gli europei, facciamoci gli
affari nostri. In fondo abbiamo due Oceani che ci proteggono".
Ma proprio fra le acque dell'Oceano Atlantico inizia a scricchiolare la
tanto sbandierata neutralità. Il prolungarsi della guerra in Europa
costringe i paesi dell'Intesa a chiedere agli esportatori americani una
sempre maggiore quantità di materiali, di armi e di derrate alimentari.
L'acquisto di questi beni richiede, però, una adeguata disponibilità
finanziaria che i paesi importatori non hanno cosicché il presidente
americano, per tutelare gli interessi economici della sua nazione, si
vede costretto ad autorizzare le banche a concedere prestiti.
Gli Stati Uniti da semplici esportatori diventano così anche finanziatori,
alimentando un irreversibile legame con i paesi europei. Con la crescita
esponenziale del commercio verso l'Europa, aumenta di conseguenza l'interesse
americano a salvaguardare la libertà dei mari e la sicurezza delle
rotte commerciali.
Quando l'affondamento dei mercantili lungo le coste inglesi e francesi
diviene sempre più frequente e i danni subiti dagli esportatori
americani sempre più ingenti l'opinione pubblica statunitense,
sapientemente stimolata dagli organi di informazione, vira sempre di più
in direzione dell'interventismo.
«La decisione tedesca della guerra sottomarina illimitata, cioè
l'affondamento a vista di tutte le navi senza preavviso, è un colpo
basso diretto ai mercantili battenti bandiera statunitense, ma non ancora
il passo decisivo verso la guerra» fa notare il professor Saccoman.
«La misura verrà colmata con il "telegramma Zimmermann",
documento inviato il 16 gennaio 1917 dal Ministro degli Esteri dell'Impero
tedesco, Arthur Zimmermann all'ambasciatore tedesco in Messico, Heinrich
von Eckardt e decrittato dall’ammiraglio inglese William Hall, che
lo consegnò all’ambasciatore Usa a Londra Walter Page. In
esso si istruiva l'ambasciatore tedesco ad "agganciare" il governo
messicano con la proposta di formare un'alleanza contro gli Stati Uniti.
Il governo messicano avrebbe dovuto fare causa comune con la Germania,
cercando di persuadere il governo giapponese ad unirsi alla nuova alleanza,
ed attaccare gli USA. La Germania da parte sua prometteva supporto economico
e la restituzione al Messico degli ex-territori di Texas, Nuovo Messico
e Arizona (persi durante la Guerra Messicano-Americana del 1846-1848).
Il complotto "disonesto" dei tedeschi ai danni degli USA neutrali
vinse le ultime resistenze di Wilson e il 6 aprile del 1917 l'America
entrò nella Grande Guerra.
Le prime truppe americane sbarcarono in Europa nel giugno 1917 al comando
del Generale John Pershing. «Il paradosso» ha fatto notare
Saccoman «è che al momento della dichiarazione di guerra
gli Stati Uniti non hanno un vero esercito, appena 98.544 uomini, nessuna
organizzazione al di sopra della Brigata e neppure la coscrizione obbligatoria».
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