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«Gli
scalda-rancio sono giunti al momento opportuno: per quanto l'inverno non
sia tanto aspro, pure il termometro scende spesso di notte a 7 e 8 gradi
sottozero. Il rancio è unico: viene distribuito di notte e per
quanto trasportato nelle casse di cottura finisce per giungere freddo
proprio a quelli che più hanno bisogno di calore. Alle vedette,
alle guardie, ai piccoli posti distaccati lontano. Fa pena vedere certi
poveri siciliani, calabresi, napoletani - veri bambini - accoccolati in
qualche angolo un po' riparato dal vento, godersi il tepore della gavetta
che non riesce nemmeno a sgranchire loro le dita irrigidite dal freddo.
E fa pena ugualmente il vedere certi alpini vecchi, barbuti, uomini di
40 anni, che con aria rassegnata ingoiano quelle quattro cucchiaiate tiepide.......lo
scaldarancio serve per dar fuoco ai quattro sterpi che manderanno più
fumo che caldo. Serve da lumino, serve da stufetta e da scaldìno;
posto in vecchie latte da conserva bucherellate, costituisce un ottimo
piccolo calorifero. E serve, più di ogni altra cosa, serve da amico.
È il simbolo del focolare!» Questa testimonianza da sola,
fra infinite altre tutte inedite, ha fornito al Convegno organizzato dagli
alpini del gruppo Milano Centro, tenutosi lo scorso 17 giugno a Palazzo
Cusani di Milano, uno spessore non preventivato alla vigilia dell'evento.
Un convegno che non replichi fatti e nozioni note, ma arricchisca la conoscenza
collettiva con particolari e approfondimenti inesplorati, raggiunge sempre
e in pieno il suo obiettivo. E così è stato a Palazzo Cusani.
I relatori hanno fatto riaffiorare dati e particolari mai sufficientemente
evidenziati dalla storia militare: per esempio che negli imperi centrali
europei ha fatto più morti la fame durante la prima guerra mondiale
che le bombe durante la seconda. Settecentomila vittime contro cinquecentomila.
E ancora: che fra i due più famosi ricettari del primo Novecento
italiano, quello dell'Artusi e quello di Ada Boni, ne esiste anche un
terzo, scritto dal tenente genovese Chioli durante la sua prigionia in
un campo di concentramento austriaco. Il giovane ufficiale per ingannare
il "vuoto" della detenzione raccolse ricette e piatti tipici
di quasi tutte le regioni italiane, carpendo contributi dagli altri ufficiali,
anche loro prigionieri. Chioli, da buon genovese, si impegnò nella
perfetta formulazione del pesto e non risultò essere estraneo alla
nascita della Confraternita del gustoso condimento ligure.
L'articolazione del Convegno è stata avvincente con excursus sulle
modificazioni alimentari introdotte dalla guerra e finite col riverberarsi
sulle tavole degli italiani anche lontano dalle trincee. Se ne è
fatto interprete Alessandro Marzo Magno, scrittore e giornalista, che
ha intramezzato il suo interessante e gradevole intervento con vere e
proprie "chicche culturali".
Tipo: i soldati siciliani non conoscevano il bollito e i commilitoni del
Nord avevano fatto credere loro che in Lombardia e Piemonte esistessero
delle "miniere di bollito"; gli alpini abruzzesi non avevano
mai visto arance, tanto da mangiarle senza sbucciarle all'inizio dell'avventura
bellica; il caffè, introdotto dopo la sconfitta di Caporetto per
far aumentare l'attenzione dei soldati, attecchí talmente che i
militi, finita la guerra e tornati a casa, lo imposero nella colazione
familiare del mattino; il riso, invece, ingrediente povero e popolare
delle minestre venete, non incontrò mai il favore dei soldati,
in particolare di quelli meridionali, complice il "calvario"
che ne accompagnava il percorso, dalle cucine da campo ai luoghi si consumo:
arrivava sempre scotto, lungo e immangiabile. Talché finita la
guerra, a differenza del caffè, il riso ebbe sorte avversa al suo
ingresso nei menù del Sud, tanto che i ristoranti del Meridione,
ancora agli inizi degli Anni 80, non contemplavano il risotto nelle loro
proposte.
Sergio Tazzer, altro studioso di materie militari, ha seguito il filo
tragico che ogni guerra ha sempre cercato di spezzare: fame-sete-morte.
E anche il suo intervento è stato ricco di aneddoti: dalla razione
calorica dei nostri soldati (4085 calorie a testa a inizio guerra), ben
superiore alle 3900 calorie che la popolazione civile raggiunse solo nel
1961; alla fornitura alla truppa di bevande alcoliche di conforto; dalla
grande sete che colpì i soldati sui fronti dell'Isonzo e del Carso;
ai laghetti e rari corsi d'acqua inagibili e impotabili per i tanti cadaveri
che vi finirono immersi.
L'acqua, in tutte le guerre, ha rappresentato elemento sia strategico
sia tattico; a maggior ragione lo è stata in una guerra di posizione
, come quella del '15-'18. L'Italia si mostrò impreparata al riguardo
e cercò di porvi rimedio con estremo ritardo: in tanti morirono
per sete e qualcuno annotò che «nessuno spasimo di ferita
può eguagliare il tormento della sete».
Alice Colombo e Francesca Del Maestro, storiche dell'arte del Museo del
Risorgimento di Milano, hanno parlato dei pittori soldato al fronte, mostrando
una serie di disegni, fra cui pregevoli testimonianze grafiche e pittoriche
di Alberto Salietti (1892-1961). Il tema del cibo, della mensa, dei momenti
conviviali del battaglione, è stato trattato dagli artisti soldati
con struggente immediatezza e con tratti emozionali ed evocativi. Dimostrazione
che mettersi a mangiare richiamava sempre alla mente la famiglia lontana.
Il professor Gianluca Pastori, della Cattolica di Milano, ha intrattenuto
la platea sulla politica annonaria italiana ai tempi della prima guerra
mondiale, spiegando come e perché le produzioni agricole soffrissero
(i contadini al fronte erano oltre la metà dei soldati) e quanto
fu necessario ricorrere al razionamento. Se ne occupò il commissario
Crespi, milanese e liberista convinto, "usato" dal Governo per
uccidere il liberismo nella politica annonaria, in quanto «il libero
mercato è incapace di vincere le guerre». Solo lo Stato,
durante un conflitto, deve decidere cosa è giusto produrre, come
produrre, quanto produrre e a che prezzo.
La nota di attualità è stata fornita dal capitano dell'Esercito
Ezio Gaglione che ha illustrato le razioni moderne per il soldato tecnologico
di oggi.
Ma il pezzo forte del convegno è stato indubbiamente la corposa
relazione dello storico alpino Andrea Bianchi, dedicata allo scalda-rancio:
una summa che partendo dalla invenzione del "magico" rotolino
di carta, impregnata di sego e cera, adatto a scaldare il cibo in gavetta,
finisce con lo spaziare per altri e più vasti orizzonti. Il ruolo
delle donne (l'Armata silente o seconda Armata) nel fronte interno; Clara
Ferri, presidente dell'Organizzazione femminile; Bianca Nigra, madrina
di guerra; Rosetta Navasco, altra donna impegnata; il "Ristoro del
soldato" alla stazione di Lambrate, capace di nutrire 12 milioni
di soldati in transito per il fronte; la costituzione dell'Opera nazionale
dello scalda-rancio che ebbe ruolo essenziale in guerra e per il morale
delle truppe, producendo in totale più di 600 milioni di preziosi
rotolini.
L'Opera chiuse i bilanci in attivo nel 1919 e devolse gli utili agli orfani
e ai reduci. Tenne fede al suo impegno a dispetto di mille avversità.
Se ne erano persi memoria e ruolo, ma gli alpini milanesi vi hanno posto
rimedio. |