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Il
primo conflitto mondiale esaminato da un angolo visuale tra i meno esplorati
ed appariscenti. Essere in trincea con il fucile ma anche con un santino
devozionale, oppure con al collo uno scapolare, quell'artigianale sacchetto
di stoffa recante cucita un'immaginetta sacra e al suo interno spesso
un frammento di intonaco proveniente dalla chiesa del paese o del borgo
di origine del soldato.
Che ruolo ebbe la religione sui fronti della guerra del '15-'18? La Chiesa
di Roma, che per bocca del suo massimo esponente Papa Benedetto XV bollò
il conflitto come "l'inutile strage", chi spinse dei suoi sacerdoti
fra i reticolati e i cunicoli d'alta quota per portare conforto spirituale
alla truppa, dare un senso al massacro, tenere vivi i legami con le famiglie
lontane?
Il tema, complesso e avvincente, è stato proposto e dibattuto in
una giornata di studi organizzata dagli alpini del gruppo Milano Centro
"Giulio Bedeschi", d'intesa con il Museo del Risorgimento di
Milano.
Il convegno, intitolato "Oltre la fede. 1915-1918. L'aspetto multireligioso
nell'Esercito Italiano", si è tenuto il 10 ottobre a Palazzo
Moriggia e si è connotato come prezioso momento di riflessione
e di scoperta documentaristica all'interno del Progetto per il Centenario,
messo in essere dagli alpini del gruppo Bedeschi.
Come in un gioco di colte matrioske ogni evento è collocato all'interno
di un altro. Il convegno "Oltre la fede" è stato posto
all'interno della mostra "Si combatteva qui. 1915-1918. Sulle orme
degli alpini nella Grande Guerra" e la mostra, a sua volta, all'interno
della gigantesca rievocazione del primo conflitto mondiale che le penne
nere milanesi hanno voluto fosse lunga quanto la partecipazione italiana
alla guerra di un secolo fa (cioè quattro anni).
Basta entrare infatti nel sito www.alpinimilanocentro.it ed è possibile
la lettura dei bollettini quotidiani ufficiali emessi dallo Stato Maggiore
cento anni fa, insieme ad una successione di documenti originali, pagine
da archivi, frammenti di giornali d'epoca, foto, telegrammi, carte topografiche,
linee di costa, documenti sonori, canzoni con voci riesumate dal passato,
irreali e pur vive, anonime ma ancora capaci di commuovere.
Tornando al convegno "Oltre la fede", i relatori hanno fatto
rivivere dimensioni e procedure della "sacralizzazione" della
guerra: più di 24 mila preti-soldato, circa 2.700 cappellani militari,
una dozzina di pastori valdesi (quasi tutti sottotenenti degli alpini),
nove rabbini e 50 imam per l'assistenza spirituale degli operai libici
militarizzati impiegati dall'esercito italiano non al fronte ma in fabbriche
operanti nella produzione di armi e munizioni.
«Il Regio Esercito fu il primo ente nazionale aperto a tutte le
religioni» ha sottolineato lo storico Andrea Bianchi «con
un rispetto assoluto per ogni credo e usi e costumi correlati. Tant'è
vero che negli accampamenti destinati agli operai libici militarizzati
era sempre presente un locale adibito a moschea. Oggi questi luoghi di
culto islamico suscitano resistenze in Italia, ma un secolo fa non posero
problemi».
Il professore Gianluca Pastori, docente all'università Cattolica
di Milano, ha ripercorso la nascita dell'istituto castrense che ebbe luogo
il 1° giugno del 1915. Il generale Cadorna già con una circolare
del 12 aprile di quello stesso anno aveva fortemente voluto gli ecclesiastici
per l'assistenza ai combattenti, convinto che queste figure potessero
alimentare spirito di obbedienza e senso della disciplina.
«All'inizio del conflitto queste figure sacerdotali furono autocefale,
senza gerarchia né distribuzione territoriale» ha ricordato
Pastori, «finché la Sacra Congregazione non diede vita all'Istituto
Castrense, per ricondurre i religiosi al fronte sotto la gerarchia ecclesiastica».
«E da quel momento» spiega sempre il professor Pastori «i
cappellani militari devono agire sotto una doppia dipendenza: quella militare
e quella dell'autorità religiosa. Il clero militare assolve a compiti
molteplici: spiega il senso e le ragioni della guerra, aiuta i soldati
analfabeti a mandare notizie alle famiglie (di fatto svolge un ruolo da
scrivano), è autorizzato a dispensare assoluzioni di massa e in
articulo mortis».
A un tratto decisamente propagandistico dei cappellani militari fa da
contraltare il cosiddetto clero normale, quello non reclutato, che agisce
a ridosso del fronte interno, dove vivono (desolate e depresse) le famiglie
dei militari al fronte; questi sacerdoti "normali" hanno atteggiamenti
meno marziali e più disfattisti.
«Il concetto della "sacralizzazione" voluta da Cadorna,
cioè che la guerra fosse una guerra giusta, verrà messo
in discussione proprio dalla posizione papale» fa notare Pastori,
«salvo un serrare le fila dopo la disfatta di Caporetto e a fronte
di un reale rischio di invasione da parte degli Austroungarici. Allora
cessarono i distinguo e resistere divenne l'imperativo di tutti».
Interessanti le testimonianze di Valdesi ed Ebrei, accomunati dall'essere
stati parte molto minoritaria della truppa e per la prima volta non discriminati
per non essere cattolici.
«I valdesi, espressione del mondo alpino, si accinsero serenamente
al loro dovere di soldati» rammenta Giuseppe Platone, pastore valdese.
«La guerra venne vissuta come tragica necessità e come servizio
dedicato a una buona causa. Per noi il primo conflitto mondiale fu visto
come ultima guerra d'indipendenza, cui avrebbe dovuto seguire un lungo
periodo di pace. Ci sbagliammo».
«I cappellani valdesi» continua Platone «vagano per
i vari battaglioni alla ricerca dei correligionari sparsi un po' dovunque
ed era come cercare il classico ago nel pagliaio; ma nessuno si tirò
mai indietro di fronte al pericolo, pur di portare la sua parola di conforto».
«Per gli appartenenti alla comunità ebraica la Grande Guerra
fu la prima vera occasione di assolvere al proprio dovere come cittadini»
dice Francesco Palazzo, specializzando in studi storici all'Università
degli Studi di Milano. «C'era da rimuovere il "vizio psicologico
della minoranza" e la necessità di mostrarsi coraggiosi come
risposta a chi accusava gli ebrei di codardia verso la Patria ospitante.
Furono 5.500 gli ebrei coinvolti nel conflitto contro i 5.200.000 italiani;
la metà di quegli ebrei fu costituita da ufficiali, dei quali 20
generali. I caduti di fede ebraica furono in tutto 700».
È stata poi la volta di Gregorio Taccola che ha illustrato l'archivio
di Cesare Caravaglios, depositato nelle raccolte storiche del Comune di
Milano; archivio dal quale si ricavano informazioni importanti sulla religiosità
popolare. «La prima guerra mondiale fu per gli etnografi miniera
e laboratorio di conoscenza e studio per effetto degli spostamenti di
massa di parte cospicua della popolazione» ha documentato il ricercatore,
che ha poi mostrato una lunga serie fotografica dedicata agli ex-voto
dei soldati.
L'archivista Saverio Almini si è soffermato sulla corrispondenza
fra l'Arcivescovo di Milano Cardinal Ferrari e il clero diocesano alle
armi; mentre il docente Walter Rossi ha chiuso la giornata di studi parlando
della religiosità nell'Esercito Austroungarico.
«Erede del Sacro romano Impero, esistente da più di mille
anni, composto da 18 province in cui si parlavano 11 lingue diverse, il
mondo di Francesco Giuseppe era davvero una Vaterland, una grande Patria
in cui il senso della religiosità era elevatissimo» ha spiegato
il professor Walter Rossi. «L'imperatore si fece ritrarre infinite
volte a messa con la divisa militare di comandante supremo, quasi a voler
significare che la benedizione divina non poteva che sbilanciarsi a favore
delle truppe imperiali. Furono 300.000 mila i soldati ebrei a battersi
per Francesco Giuseppe e furono un centinaio i rabbini da campo».
Degna cornice del convegno sono stati il moderatore Sergio Tazzer, misurato
e competente; l'assessore alla Sicurezza del Comune di Milano, Marco Granelli;
il presidente della sezione ANA di Milano, Luigi Boffi; il vessillo della
sezione di Milano con le sue 9 medaglie d'oro e il gagliardetto del gruppo
"Bedeschi".
Citazione a parte per la gentile dottoressa Maria Fratelli, padrona di
casa, direttrice del Museo del Risorgimento, la quale ha ricordato a tutti
che «la storia è un dialogo senza fine fra presente e passato».
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