I risultati della battaglia che cominciò
il 6 agosto sono sintetizzati dai bollettini e non li ripeteremo.
Svolgeremo una serie di considerazioni sulla preparazione, sulla
struttura di comando e sull’impostazione generale della
battaglia.
Con la sesta battaglia dell’Isonzo e la presa di Gorizia
l’esercito italiano per la prima volta dal maggio 1915 riuscì
a passare per un breve momento alla guerra di movimento.
Per tutto giugno e luglio, mentre in Trentino si esauriva l’offensiva
austriaca e si sviluppava la nostra controffensiva, le linee italiane
sull’Isonzo furono rafforzate. La preparazione della battaglia
fu molto curata: durò tre mesi e creò, oltre che
i mezzi dell’attacco, quelli per migliorare l’esistenza
materiale delle truppe. Furono costruiti, aumentati o migliorati
depositi di viveri, ambulanze, cucine, condotte d’acqua,
reti telefoniche, posti di corrispondenza, osservatori. Fu migliorata
l’organizzazione dei mezzi aeronautici, aumentate e migliorate
le batterie contraerei e i rifugi per le riserve. La sola 12a
Divisione, per esempio, costruì 25 chilometri di fossati.
Si realizzarono ricoveri ampi abbastanza da contenere intere brigate,
piazzuole per bombarde, ricoveri per cannoni e depositi di munizioni.
Mezzi e reparti furono trasportati dal fronte trentino a quello
dell’Isonzo sfruttando il vantaggio della manovra per linee
interne, utilizzando per la prima volta in maniera degna di nota
i mezzi automobilistici e riuscendo a mantenere l’operazione
nascosta al nemico quanto bastò ad ottenere l’effetto
sorpresa. In tutto questo vi furono indubitabili meriti del nostro
Comando Supremo.
Luigi
Capello, comandante del VI Corpo d’Armata, al quale fu affidato
il ruolo più importante nell’offensiva, ebbe il merito
di avere curato al meglio l’addestramento delle truppe e
ai suoi comandanti di divisione il merito di avere dato perfetta
attuazione alle direttive ricevute: i soldati impararono a marciare
sotto l’arco della traiettoria dell’artiglieria, di
modo che non fosse necessario interrompere il bombardamento poco
prima dell’assalto delle fanterie.
Se una qualsiasi difficoltà avesse incagliato un reparto,
gli altri non dovevano attardarsi per timore di perdere il contatto
con esso, ma dovevano continuare ad avanzare, e dopo aver superato
le prime trincee avversarie dovevano scendere all’Isonzo
e passare oltre, lasciando solo truppe in osservazione attorno
ai capisaldi nemici oltrepassati ma non ancora sopraffatti, perché
alla loro eliminazione avrebbero provveduto i rincalzi sopraggiungenti
e l’artiglieria.
L’assalto doveva procedere ad ondate: la prima doveva raggiungere
la linea nemica ed oltrepassarla, la seconda spargersi a destra
ed a sinistra dei varchi, le successive dovevano rafforzare le
prime, catturare i prigionieri, eliminare le riserve nemiche,
costruire nuove trincee. L’artiglieria doveva squassare
il terreno vicino e lontano, sul fronte e sui fianchi delle truppe
attaccanti; il genio doveva poi completare le necessarie distruzioni.
Il fuoco fu concentrato su un tratto di fronte relativamente breve
ma fu estremamente violento e preciso. I grossi calibri, aperto
il fuoco al segnale convenuto, lo diressero sui punti più
delicati dello schieramento nemico. Molti mesi di paziente osservazione
e l’azione dei servizi informativi avevano permesso di individuare
la posizione di batterie, osservatori, camminamenti, grovigli,
accessi ai ponti, linee telefoniche, luoghi di passaggio obbligato,
residenze di comandi e magazzini austriaci.
Per la prima volta furono usate a massa le bombarde e i reticolati
risultarono finalmente spianati in più punti. Le bombarde
furono messe alle dirette dipendenze dei comandi di brigata per
armonizzare il loro uso con le esigenze tattiche della fanteria.
Capello aveva sotto il suo comando ben sei divisioni (45a, 24a,
11a, 12a, 43a, 47a). Nel piano per la battaglia le azioni più
importanti spettavano alle ali dello schieramento del suo corpo
d’armata: a sinistra la 45a Divisione (Generale Giuseppe
Venturi) e a destra la 12a (Generale Fortunato Marazzi), rispettivamente
contro il Sabotino e contro il Podgora, i due pilastri della testa
di ponte di Gorizia.
Ciò risulta chiaramente anche dai mezzi messi a disposizione
delle due divisioni: all’alba del 6 agosto 1916 la 12a divisione
aveva 217 pezzi di artiglieria, comprese 102 bombarde, e un totale
di 592 ufficiali e 21.454 soldati presenti; la 45a aveva 241 pezzi
d’artiglieria, 674 ufficiali e 22.555 uomini di truppa.
Come ha scritto Antonio Sema (La Grande Guerra sul fronte dell’Isonzo,
Volume primo, pp. 217-218): «La sera del 6 agosto 1916 chiudeva
una giornata diversa da tutte quelle che avevano scandito la guerra
sull’Isonzo fino a quel momento: le previsioni fatte prima
di una grande battaglia erano state coronate da successo, non
completo, certo, ma indubbio, e, nei limiti dell’esperienza
di quel fronte, più che consistente. Per la prima volta,
anzi, il prosieguo dell’azione non richiedeva più
di insistere sugli stessi obiettivi, ma di sfruttare i risultati
conseguiti per andare avanti».
Il 7 agosto la difesa della testa di ponte austriaca
si sgretolò. Nelle prime ore dell’8 agosto due strutture
ottimizzate per la guerra di posizione si ritrovarono di colpo
ad affrontare una battaglia dinamica ma il Comando Supremo non
preparò tempestivamente truppe celeri da lanciare all’inseguimento
del nemico. L’8 agosto 1916 le truppe della 12a divisione
furono lanciate oltre l’Isonzo, e i suoi soldati furono
i primi a entrare a Gorizia, ma la fanteria da sola, in gran parte
senza riposo da quasi 48 ore, non poteva fare miracoli. Una verità
inconfutabile, ma che nessuno poteva allora sapere, è che
furono gli austriaci a decidere il momento e il luogo esatti dove
ritirarsi.
Il momento opportuno per lanciarsi all’inseguimento sarebbe
dovuto essere il cuore della notte sull’8 agosto, e al buio
non si poteva fare granché. Gli austriaci, invece, fin
dall’inizio della guerra avevano mostrato di essere in grado
di operare meglio degli italiani nell’oscurità; inoltre
si ritiravano lungo strade ben conosciute, in territorio non ostile,
mentre gli italiani inseguivano letteralmente alla cieca.
All’alba Gorizia era già del tutto sgombra di austriaci.
Le truppe italiane entrarono in una città vuota, non vi
fu nessun combattimento dentro il centro abitato, i prigionieri
fatti in città e poco a oriente erano un puro velo di retroguardie,
e anche i civili rimasti in città erano circa 1.500, appena
il 5% della popolazione presente prima della guerra e il 15% di
quella presente prima dell’offensiva italiana.
Lo stesso comandante della 12a divisione si rese conto della situazione
poco dopo le 7 del mattino dell’8 agosto, ma se anche avesse
avuto in quel momento ai suoi ordini le truppe celeri che solo
alcune ore dopo gli furono affidate e le avesse immediatamente
lanciate all’inseguimento, era già troppo tardi,
perché la ritirata austriaca era cominciata all’1.30,
e aveva evitato proprio che la sconfitta si trasformasse in una
rotta.
Alle cinque del pomeriggio dell’8 agosto tanto la cavalleria
che i battaglioni bersaglieri ciclisti erano ancora sulla riva
destra dell’Isonzo. I ciclisti passarono il fiume alle nove
della sera, ma fino alle cinque e mezza del mattino successivo
si limitarono a proteggere il gittamento di un ponte da parte
dei genieri; la cavalleria passò sulla sponda sinistra
alle 00.40 del 9 agosto.
Dal principio della guerra i generali italiani sognavano la possibilità
di manovre napoleoniche, ma quando l’occasione si presentò,
nessuno si dimostrò capace di sfruttarla. I fronti di battaglia
erano più estesi che in qualsiasi altra guerra precedente
e quindi non si poteva esercitare il comando con i portaordini;
c’era il telefono, ma le comunicazioni erano spesso interrotte
dai tiri delle artiglierie nemiche, e nuove linee telefoniche
non potevano essere stese alla stessa velocità con la quale
avanzavano le fanterie: vi era un limite oltre il quale le difficoltà
delle comunicazioni divenivano tali da rendere inefficace l’azione
di comando.
Non fu previsto tempestivamente lo spostamento in avanti delle
artiglierie e quindi non appena le fanterie avanzarono oltre la
gittata utile venne loro a mancare non solo la copertura ma anche
l’appoggio di fuoco necessario per attaccare le nuove posizioni
dell’avversario. D’altronde gli austriaci avevano
fatto saltare quasi tutti i ponti, i guadi sull’Isonzo erano
pochi e non utilizzabili per far passare sulla riva sinistra grandi
quantità d’artiglieria di medio e grosso calibro.
Anche la logistica si trovò quindi ad affrontare notevoli
ostacoli, superabili solo se la possibilità di attraversare
in forze il fiume fosse stata prevista con largo anticipo, ma
non fu così. L’azione fu perfetta finché si
trattò di eseguire il disegno operativo preparato da lungo
tempo; allorché gli italiani si trovarono in una situazione
dinamica, quando era necessario pensare ed agire con estrema rapidità,
si manifestò l’inadeguatezza dei vertici militari.
Vi erano anche limiti organici. La divisione era l’unità
tatticamente decisiva e tuttavia dipendeva troppo dai comandi
superiori per essere in grado di sfruttare in autonomia le situazioni
favorevoli createsi sul terreno della battaglia. Rimodellare la
struttura della divisione avrebbe richiesto però una riflessione
più profonda sulla natura di quella guerra, e quindi i
limiti organici erano indizio di limiti di orizzonte mentale.
Non che gli austriaci dimostrassero maggiore fantasia, anzi, ma
loro dovevano solo difendersi mentre gli italiani dovevano vincere.
Il 10 agosto era chiaro che bisognava ricominciare con l’attacco
metodico ma ci volle ancora una settimana di sanguinosi ed inutili
attacchi frontali prima che il Comando Supremo italiano si rendesse
conto della situazione e sospendesse l’offensiva.
I
primi ad entrare in Gorizia, l'8 agosto 1916, furono i fanti del
28º fanteria "Pavia", comandati dal sottotenente
Aurelio Baruzzi, medaglia d'oro al V.M. La brigata Pavia faceva
parte della dodicesima divisione comandata dal generale Fortunato
Marazzi, che per questa vittoria e altri meriti di guerra fu insignito
della Croce di Savoia.
Medaglia d'Oro al Valore Militare
«Comandante di un reparto di bombardieri
a mano, si slanciava per primo in un camminamento austriaco, catturandovi
uomini e materiali. Due giorni dopo, accompagnato da soli quattro
uomini, irrompeva in un sottopassaggio della ferrovia apprestato
a difesa, contro il quale si erano spuntati gli attacchi dei due
giorni precedenti, intimando audacemente la resa a ben duecento
uomini, che venivano catturati unitamente a due cannoni e ricco
bottino di armi e materiale. Più tardi partecipava al passaggio
a guado dell’Isonzo, si spingeva in Gorizia e nella stazione
innalzava la prima bandiera italiana.»