Arrestati i dirigenti
della Federazione
giovanile socialista

Prof. Andrea Saccoman

Domenica 10 settembre 1916 la polizia arrestò a Roma i dirigenti della Federazione giovanile socialista italiana e sequestrò 30.000 manifestini antimilitaristi destinati ai soldati.
Sin dalla sua nascita il movimento socialista era stato lo spauracchio delle classi dirigenti italiane. Alla vigilia della guerra nell’estate del 1914 la posizione ufficiale dei partiti socialisti aderenti alla Seconda Internazionale era di intransigente opposizione, fino a minacciare lo sciopero generale per fermare la guerra “borghese e imperialista” perché, come scritto nel Manifesto del partito comunista, “i proletari non hanno patria”. Tuttavia, una volta cominciate le ostilità, la maggior parte dei partiti socialisti appoggiò i governi nazionali votando i crediti di guerra e in taluni casi entrò anche a farvi parte, ciò che costituì la fine di fatto dell’Internazionale socialista.

La posizione del Partito socialista italiano era quella sintetizzata nella celeberrima formula “né aderire né sabotare”, ma il socialismo italiano, già diviso prima della guerra tra riformisti e massimalisti, vide diversi suoi rappresentanti appoggiare l’intervento nel conflitto: i casi personali più noti furono quelli di Benito Mussolini e Leonida Bissolati, ma il travaglio investì tutto il movimento.



Tra il 5 e l’8 settembre 1915, nella cittadina svizzera di Zimmerwald, si svolse una conferenza internazionale fra una trentina di delegati dei principali partiti socialisti europei, indetta per iniziativa dei socialisti italiani e svizzeri. Lo scopo era quello di ritrovare la perduta unità d’azione di fronte alla guerra, ma tutto ciò che ottenne fu un manifesto contro la guerra e per una pace senza annessioni e senza indennità.
Tra il 24 e il 30 aprile 1916 una seconda conferenza si tenne, sempre in Svizzera, nella cittadina di Kienthal, tra le componenti socialiste ostili alla guerra, oramai minoritarie. Fu riaffermata la proposta di una pace immediata senza annessioni e senza indennità, ma trovò consenso anche la tesi di Lenin sulla trasformazione della guerra imperialista in guerra di classe.
Tutto ciò rese ancora più sospetta e guardinga la polizia italiana: la Questura di Roma, in pieno accordo con l’Arma dei Carabinieri, prese tutte le misure opportune per stroncare sul nascere ogni tentativo di propaganda antimilitarista. I socialisti italiani furono quindi sottoposti ad una ancor più rigorosa sorveglianza.
Nel pomeriggio del 10 settembre 1916 carabinieri e funzionari di polizia fecero irruzione nella tipografia di Luigi Morara in via Celimontana n. 30. Con lui furono arrestati Federico Marinuzzi, segretario delle Federazione giovanile socialista, Italo Toscani, direttore del giornale “L’Avanguardia”, e Giuseppe Sardelli, presidente del Sindacato dei tranvieri municipali e membro della Commissione direttiva della Camera del Lavoro di Roma. Furono sequestrati tutti i manifestini stampati e la composizione dei caratteri.
I manifesti erano modellati su altri pervenuti dalla Svizzera firmati da Isacco Schweide, segretario del Comitato internazionale della gioventù socialista, con sede a Zurigo, e direttore del giornale L’Avvenire del Lavoratore, organo del Comitato.
Malgrado la persuasione delle autorità circa l’esistenza di un complotto più vasto e pericoloso, le indagini non scoprirono nulla di più, e nel complesso è oramai assodato che, lungo tutta la guerra, la propaganda antimilitarista e “disfattista” fece molti meno danni presso le truppe combattenti di quanto pensassero allora le alte gerarchie militari.
Certo, l’aver condannato la guerra e sostenuto i diritti dei lavoratori fece apparire il Partito socialista come il principale artefice dei movimenti per la pace e la libertà, e quindi il simbolo, per alcuni, della lotta contro l’ingiustizia, ma per molti altri il principale responsabile della crisi interna del paese.