Dott.
Sergio Tazzer
Rigido,
e rigoroso, prima di tutto verso sé stesso, pretendeva
comportamento simile anche dai suoi collaboratori e, se possibile,
anche dai suoi sudditi che avrebbe sognato tutti in divisa, come
lui stesso scelse a tredici anni, quando abbracciò la vita
militare.
Francesco Giuseppe d’Asburgo
Lorena, imperatore d’Austria, re apostolico d’Ungheria,
re di Boemia, re del Lobardo-Veneto, re di Dalmazia, Croazia e
Slavonia, re di Galizia e Lodomiria, arciduca d’Austria,
gran principe di Transilvania, conte di Gorizia e Gradisca, signore
di Trieste, duca di Salisburgo, principe di Trento e Bressanone
ecc. ecc., in via sua ne vide di tutti i colori.
Nato nel Castello di Schönbrunn
il 18 agosto 1830, nello stesso palazzo a pochi passi dalla stanza
in cui era venuto alla luce morì il 21 novembre 1916, all’età
di 86 anni.
Francesco Giuseppe, maggio 1914
Aveva accettato la corona nell’anno
delle rivoluzioni, il 1848, il 2 dicembre: non a Vienna (dove
il 6 ottobre la folla in tumulto aveva linciato ed impiccato ad
un lampione della centrale Am Hof il ministro della Guerra, il
Feldzeugmeister Theodor-Franz Baillet-Latour) considerata ancora
non sicura, ma nella pù tranquilla città morava
di Olomouc (Olmütz), dopo l’abdicazione dello zio Ferdinando
e la rinuncia al trono per padre Francesco Carlo.
Il sostegno dell’esercito
gli fu garantito dal comandante militare della Boemia, il feldmaresciallo
Alfred Candidus Winfisch-Graetz: un duro (Praga, assediata e bombardata
dalle sue truppe nel giugno ’48, ancora lo ricorda).
Nei primi passi di monarca assoluto
gli fu accanto un principe boemo, Felix zu Schwarzenberg, come
fu un altro nobile boemo, il generale conte Jan Jozef Václav
Radecký z Rádce, il suo mentore militare.
Sarebbe lungo anche solo sintetizzare
la storia straordinariamente varia vissuta con una normalità
disarmante, anche noiosa e sicuramente monotona, fra successi
e sconfitte militari, un tentativo di regicidio, il matrimonio
infelice con la cugina Elisabetta di Baviera, le alleanze internazionali
mal sopportate, le rivolte popolari, i lutti in famiglia (la figlia
primogenita Sofia morta di polmonite a Budapest, il fratello Massimiliano
fucilato a Santiago di Querétaro, in Messico, il figlio
Rodolfo suicida a Mayerling, la stessa moglie Sissi assassinata
a Ginevra dall’anarchico Luigi Lucheni).
Apparvero il telegrafo, la luce
elettrica, il telefono, il cinematografo, il fonografo, l’automobile
(alla quale preferì la carrozza a cavalli): i tempi mutavano
rapidamente, ma sopra tutto e tutti stava la sua figura divinizzata,
riferimento di una quantità di etnie che magari fra esse
mal si sopportavano ma che in lui, augusto imperatore, riuscivano
a trovare un comune senso di rispetto, e forse anche di venerazione.
Il destino non gli fece mancare
nulla e l’ultimo colpo fu l’assassinio a Sarajevo
del mal sopportato nipote, erede al trono, Francesco Ferdinando
e della consorte boema ofie Chotková, ancor più
malvista.
Ne seguì, com’è
noto, il primo conflitto mondiale iniziato con la dichiarazione
di guerra al riottoso e disordinato regno di Serbia, dopo l’ultimatum
(«La nota è molto dura», fece osservare al
ministro degli Esteri, conte Leopold Berchtold) firmato a Bad
Ischl, in Alta Austria, dove stava trascorrendo quell’estate
torrida. Aggiunse borbottando – secondo l’aneddotica
– al suo aiutante di campo, il generale di cavalleria Eduard
Maria von Paar e ai presenti, fra i quali Berchtold giunto appositamente
da Vienna: «La guerra! Lor signori non sanno cos’è
la guerra! Io lo so, sono stato a Solferino».
Non era convinto di quella guerra
caldeggiata e organizzata dal circolo militarista e bellicista
ben rappresentato dal capo di stato maggiore, feldmaresciallo
Franz Conrad von Hötzendorf, dal primo ministro austriaco
Karl von Stürgkh, dal ministro della Guerra, generale Alexander
von Krobatin, con la sottile regia del capo della diplomazia,
Berchtold. Francesco Giuseppe percepiva che il suo impero non
era più al passo con i tempi, vecchio al paragone con la
dinamica Germania degli Hohenzollern.
Francesco Giuseppe durante una visita ufficiale
in Slovacchia
Il conflitto esordì male
in Serbia, con una serie di batoste inflitte al Cer ed a Kolubara
dalle scalcagnate truppe serbe a quelle imperiali e regie del
generale Oskar Potiorek. Per rimettere le cose a posto e sconfiggere
re Pietro Karadordevic Vienna dovette aspettare fino all’ottobre
1915 l’intervento a fianco delle truppe austro-ungariche
dell’armata tedesca agli ordini del generale sassone August
von Mackensen da nord e delle divisioni bulgare da est. Sul fronte
orientale le perdite contro i russi furono enormi, numeri inattesi.
Infine, il 23 maggio 1915 l’Italia dichiarò guerra
all’Austria-Ungheria, malmessa militarmente, fragile socialmente
e politicamente.
Tuttavia la dichiarazione di guerra
dell’Italia – die treulose Italien, l’Italia
sleale – funzionò da sferzata all’orgoglio
dell’impero. Francesco Giuseppe pregò – questa
la formula – il primo ministro von Stürgkh di informare
i suoi popoli di quanto accaduto, e ciò fu fatto affiggendo
ovunque, anche nei borghi più remoti il proclama imperial-regio
in tutte le lingue: «Il Re d’Italia mi ha dichiarato
guerra. Un tradimento di cui la storia non conosce l’esempio
fu consumato dal regno d’Italia contro i due alleati, dopo
un’alleanza di più di trent’anni durante la
quale l’Italia poté aumentare i suoi possessi territoriali
e svilupparsi ad impensata floridezza. L’Italia ci abbandonò
nell’ora del pericolo e passa con le bandiere spiegate nel
campo dei nostri nemici». E avanti in questo tono sino a
concludere che «il nuovo perfido nemico del sud non è
un avversario sconosciuto: i grandi ricordi di Novara, Mortara,
Custoza, Lissa, che formano la gloria della mia gioventù,
lo spirito di Radetzky, dell’arciduca Albrecht, di Tegetthoff,
che con le forze di terra e di mare vivono eternamente, ci sono
garanzia che noi difenderemo vittoriosamente le frontiere della
Monarchia anche verso il sud. Io saluto le mie truppe vittoriose
ed agguerrite e confido in esse e nei loro condottieri. E confido
nel mio popolo, il cui spirito di sacrificio senza esempio merita
il mio più profondo ringraziamento. Prego l’Onnipotente
che benedica le nostre bandiere e prenda la nostra causa sotto
la Sua benigna protezione».
Fu l’ultima zampata del
vecchio leone, la cui parabola terrena si stava avviando alla
conclusione, mentre il suo impero alla fame si stava consumando.
Asiago distrutta, 1917
Sul fronte meridionale, contro
il quale si infrangevano le spallate ordinate al regio esercito
dal generale Luigi Cadorna, una delusione cocente gli fu provocata
dalla Frühjahrsoffensive, l’offensiva di primavera
combattuta tra il 15 maggio e il 27 giugno 1916 sugli altipiani
vicentini, quella che noi conosciamo come Strafexpetidion, voluta
da Conrad e che per l’esercito imperial-regio fu un fiasco.
Un romagnolo di Lugo, il sottotenente Aurelio Baruzzi, conquistando
l’8 agosto il sottopasso ferroviario di Gorizia e favorendo
così l’ingresso nella città del regio esercito,
gli rese ancor più amara l’estate del 1916.
Al suo crepuscolo, Francesco Giuseppe
forse capì che i giochi sullo scacchiere della guerra erano
conclusi, e non a favore degli Imperi Centrali.
L’amante Katharina Schratt,
la «cara buona amica», che ad Hietzing dirigeva un
convalescenziario per ufficiali feriti, non gli nascose che a
Vienna si faceva la fame. Il 21 ottobre, mentre come tutti i giorni
pranzava all’Hotel Meißl & Schadn nel centro di
Vienna, il primo ministro von Stürgkh venne assassinato da
Friedrich Adler al grido: «Vogliamo la pace! Abbasso l’assolutismo!».
L’anziano imperatore rimase profondamente turbato, mentre
i suoi problemi di salute stavano impensierendo la sua ristretta
cerchia.
Il dottor Joseph von Kerzl, suo
medico (anch’egli in divisa, essendo uscito dal Josephinum,
l’accademia medico chirurgica militare di Vienna), diagnosticò
la polmonite. L’11 novembre per telegramma fu avvisato l’erede
al trono, Carlo, che si trovava in Germania per affrettarne il
rientro. L’arciduchessa Maria Valeria, la figlia ultimogenita,
decise di non muoversi da Schönbrunn. L’imperatore,
molto indebolito, preferiva restare seduto, perché disteso
la tosse lo tormentava.
Il Leikammerdiener, il cameriere
personale Eugen Ketterl, non lo abbandonava un attimo e fece così
in tempo a chiamare il cappellano. Questi riuscì a dare
l’estrema unzione a Francesco Giuseppe, che con un colpo
di tosse spirò: erano le ore 21 e 05 di martedì
21 novembre 1916.
Catafalco di Francesco Giuseppe
Giornate gelide disturbarono
i sudditi che si recavamo a Schönbrunn a rendere omaggio
alla salma del vecchio imperatore, che poi venne traslata nella
Rittersaal della Hofburg, dove però non venne esposta dato
che l’imbalsamazione era riuscita male.
Il 30 novembre una Vienna ingrigita
da un cielo plumbeo assistette al passaggio dell’imponente
carro funebre trainato da quattro cavalli Kladruby neri, ultimo
omaggio di una Boemia indirizzata ormai alla sua indipendenza.
Le campane di tutte che chiese suonavano a morto.
Nella capitale era disponibile
solo un battaglione di fanteria, che rese gli onori militari al
defunto sovrano.
Vienna, Hofburg, funerali Francesco Giuseppe
Dopo la cerimonia religiosa nella
cattedrale di Santo Stefano officiata dal cardinale arcivescovo
di Vienna Friedrich Gustav Piffl, il corteo funebre aperto dal
nuovo imperatore Carlo e dalla imperatrice Zita prese la direzione
della chiesa di Santa Maria degli Angeli che ospita la cripta
dei Cappuccini.
Il gran ciambellano, conte Alfred
von Montenuovo, bussò ben tre volte, iniziando dapprima
a presentare il defunto con tutti i suoi titoli, trovando però
l’uscio della cripta sbarrato. Poi si accontentò
di specificare che si trattava dell’imperatore, senza risultato
e con la stessa riposta di prima: «Noi non lo conosciamo».
Infine, chiedendo da far entrare «Francesco Giuseppe, un
povero peccatore che implora la misericordia di Dio», trovò
la comprensione del frate guardiano che fece spalancare il portone,
consentendo che il feretro fosse collocato nella Kaisergruft,
la cripta imperiale. Il lungo regno di Francesco Giuseppe era
proprio terminato.
I funerali di Francesco Giuseppe
Nel Palazzo reale di Gödöllo,
in Ungheria, nel 1904 egli ebbe a dire che il suo impero era «un
luogo di rifugio, un asilo per tutte le nazionalità divise,
disperse nell’Europa centrale, che se dovessero contare
sulle proprie risorse condurrebbero una misera esistenza diventando
trastulli per i loro vicini più potenti».
Il 2 dicembre 1916 nella cappella
dell’Hofburg fu recitato alla presenza del nuovo imperatore
Carlo l’ultimo Requiem in sua memoria.
Fosse stato presente, avrebbe
concluso come di consueto dopo ogni occasione formale cui partecipava:
«Es war sehr schöhn, es hat mir sehr gefreut»,
è stato molto bello, mi ha rallegrato molto.
© Sergio Tazzer
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