Prof.
Andrea Saccoman
Mercoledì 5 dicembre 1916 la Camera dei
Deputati del Regno d’Italia riprese le sedute. Era rimasta
chiusa oltre cinque mesi: l’ultima seduta si era tenuta,
infatti, il 2 luglio. A dicembre essa lavorò dal 5 al 9
e dall’11 al 18. Dopo così lunga pausa era fin troppo
ovvio che la guerra fosse al centro delle ultime tredici sedute
dell’anno.
L’aula era affollatissima, i ministri quasi tutti presenti.
Prese per primo la parola il Presidente del Consiglio, Paolo Boselli.
Le cose da dire erano tante. Il discorso fu inevitabilmente prolisso.
La seduta fu tuttavia caratterizzata soprattutto da un tumultuoso
incidente.
L’on. Salvatore Barzilai (1860-1939), triestino, commemorò
le figure di Cesare Battisti e Nazario Sauro.
Terminata la descrizione dell’esecuzione di quest’ultimo,
gran parte dei deputati si alzò in una vera ovazione alla
memoria dei due irredentisti. Solo i socialisti ufficiali rimasero
seduti e silenziosi. Da destra si gridò «Alzatevi!»,
ma loro rimasero seduti. Contro di loro si levò dunque
una vera tempesta. Non solo dai banchi della destra e del centro,
ma anche dalla tribuna dei giornalisti, volarono le più
colorite invettive: «Non siete Italiani! Siete Austriaci!
Farabutti! Vigliacchi! Venduti! Traditori! Cacciateli via!».
I socialisti senza lasciarsi intimidire replicarono: «Ciarlatani!
Buffoni! Mascalzoni!». Non si arrivò allo scontro
fisico solo perché i più assennati trattennero a
forza i più scalmanati.
Il Presidente della Camera, il vecchio radicale milanese ed ex
volontario garibaldino Giuseppe Marcora (1841-1927), cercò
di riportare la calma ma alla fine, visti inutili tutti gli sforzi,
incrociò le braccia al petto in attesa che il tumulto si
placasse da sé. A un certo punto l’on. Stanislao
Monti Guarnieri (1865-1926), deputato di Senigallia per la destra,
si accasciò colto da malore, dovuto all’intensità
dell’emozione. Anche per l’impressione suscitata da
questo episodio, alla fine la calma tornò.
Al di là dei particolari aneddotici, questi fatti indicavano
a qual punto le tensioni della guerra fossero penetrate nell’aula
parlamentare. È il caso di rimarcare quanto, almeno a un
secolo di distanza, appaiano sproporzionate le reazioni antisocialiste,
tenuto conto che il gruppo parlamentare arrivava a non più
di una cinquantina di deputati in una Camera che contava 508 seggi,
e per di più quasi un anno prima che la Rivoluzione Bolscevica
rendesse generalizzata la “paura dei rossi”. Anzi,
la conclusione alla quale si deve giungere è che essa,
la paura dei rossi, aveva radici che rimontavano a ben prima della
Rivoluzione Bolscevica stessa, perlomeno in Italia.
Il 6 dicembre Filippo Turati svolse la mozione socialista per
la pace, che diceva:
«La Camera, constatato che dalle ultime solenni dichiarazioni
dei capi di Governo responsabili dei principali paesi belligeranti,
Inghilterra e Germania, emerge il consenso sostanziale sui principi
e sui propositi in base ai quali una pace onorevole e conveniente
per tutti potrebbe stipularsi, e cioè: 1° la rinunzia,
esplicitamente affermata, ad annessioni forzate e ad egemonie
violatrici del diritto delle genti; 2° la necessità,
ugualmente proclamata da ambe le parti, di una libera e tranquilla
convivenza in Europa di tutti gli Stati, grandi e piccoli, sulla
base delle rispettate nazionalità; 3° il comune dichiarato
proposito di antivenire il riprodursi di conflitti violenti fra
i popoli, mercé l’organizzazione dell’arbitrato
internazionale e di una stabile lega di Stati che ponga la pace
al coverto da improvvise aggressioni; ritenuto che un così
lucido ed eloquente consenso pone evidentemente le condizioni
necessarie e sufficienti per l’inizio, fra tutti gli Stati
interessati, di trattative di accordo che, lealmente indette e
proseguite, non potrebbero non riuscire feconde e risolutive;
invita il Governo a farsi autorevole interprete, presso i Governi
alleati, della urgente necessità di provocare - con la
mediazione della Confederazione nord-americana e degli altri Stati
neutrali - la convocazione di un congresso di rappresentanti plenipotenziari
dei paesi belligeranti, con l’incarico - sospese le ostilità
- di vagliare al lume di quei principi concordemente conclamati,
gli obbiettivi e le rivendicazioni concrete delle parti in contesa,
per una prossima soluzione del conflitto e per la salvezza d’Europa».
Oggi che la sensibilità contemporanea rispetto alla
guerra è profondamente mutata in tutte le gradazioni ideologiche,
conseguenza soprattutto del carattere devastante delle due guerre
mondiali, potrebbe sembrare di leggere una prefigurazione dell’Organizzazione
delle Nazioni Unite. Ma a quel tempo, nessun altro era disposto
ad aderire al punto di vista dei socialisti.
Messa ai voti, la proposta ne ottenne quarantasette, quelli del
gruppo parlamentare socialista, non uno di più.
La discussione proseguì intensa. Il 9 dicembre Boselli
riprese la parola per chiudere la discussione e rinvigorire il
governo con un voto di fiducia. Non prima però che un nuovo
clamoroso tumulto turbasse il dibattito. Il deputato socialista
Arnaldo Lucci (1871-1945) a un certo punto del suo discorso disse:
«Oggi le ragioni dell’umanità hanno il sopravvento
anche sulle patrie. Non si tratta più di salvare le singole
patrie; ma si tratta di salvare il fiore dell’umanità
(...). Se la mazza ferrata con la quale gli austriaci finiscono
i nostri soldati colpiti dai gas asfissianti è esposta
nelle vetrine dei negozi d’Italia, state tranquilli che
anche il coltello a serramanico italiano è esposto nelle
vetrine dei negozi di Vienna».
Ancora una volta, ai nostri occhi simili affermazioni possono
essere tacciate al più di umanitarismo idealistico, e nel
complesso non fanno che rilevare l’orribile realtà
della guerra. Ma al tempo provocarono uno dei più violenti
tumulti nella storia della Camera dei Deputati del Regno d’Italia,
perché furono percepite come un insulto all’Esercito
e ai combattenti, calunniose in quanto era dato per indiscutibile
che i nostri soldati combattessero lealmente e che solo il nemico
usasse mezzi ignobili, secondo il noto processo di demonizzazione
dell’avversario che fu uno dei portati della Grande Guerra.
Lì per lì la frase passò inosservata. I primi
a reagire furono i giornalisti della tribuna, che lanciarono contro
Lucci violente invettive. Insorsero allora anche molti deputati
e contro il deputato socialista di Napoli furono gettate manate
di soldi, a indicare che era un venduto all’Austria. I giornalisti
come un sol uomo abbandonarono l’aula in segno di protesta.
Dappertutto si gridava «Fuori! Fuori!» al
deputato socialista, mentre i socialisti ufficiali applaudivano
ironicamente. Il tumulto divenne davvero infernale. Una massa
di deputati si scagliò conto l’on. Lucci tendendo
i pugni. L’ambiente era talmente eccitato che si temette
potessero avvenire colluttazioni. Eppure nessuno passò
alle vie di fatto: con tutti i limiti e i difetti che si possono
rilevare in quella classe politica, non un capello fu torto a
Lucci a ai suoi compagni, né essi reagirono violentemente
alle aggressioni verbali e alle minacce.
Il Presidente di turno, il liberale romagnolo Luigi Rava (1860-1938),
invitò Lucci a ritirare le sue parole. Non appena fu possibile,
il Ministro della Guerra, il generale Paolo Morrone (1854-1937),
prese la parola per affermare che «i nostri valorosi
soldati combattono con armi leali, lasciando al nemico l’obbrobrioso
vanto di ricorrere a mezzi offensivi barbari ed inumani».
Di fronte alle ripetute richieste di ritirare le sue parole, Lucci
affermò non essere mai stata sua intenzione offendere l’esercito.
Poiché però i rumori e l’agitazione continuavano,
il Presidente sospese la seduta, che riprese un’ora dopo,
alle 16.30.
Alla fine, Lucci ritirò le sue parole, pur sostenendo che
fossero state fraintese. E una mozione di fiducia al Governo ottenne
374 sì contro 45 no su 419 presenti e votanti.
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