Prof. Andrea Saccoman
I moti popolari che nel marzo 1917 fecero crollare l’autocrazia
dei Romanov furono una rivoluzione spontanea, anonima e senza
capi come forse nessuna nella storia.
Nel terzo inverno di una guerra dai risultati complessivamente
negativi per la Russia, l’atmosfera a Pietrogrado era carica
di malcontento al punto che cause minime furono sufficienti a
determinare un’esplosione formidabile. Le carenze nei trasporti
e gli errori nella distribuzione costringevano oramai spesso gli
operai e le loro mogli a fare code di ore e ore davanti alle panetterie
e ai negozi di alimentari. Le classi più povere erano irritate
e malcontente per i prezzi crescenti e le privazioni che la guerra
portava con sé. Inoltre la guerra aveva visto in città
l’impianto o la crescita di molte industrie legate alla
guerra e perciò si era avuto un notevole aumento degli
operai, che raggiungevano approssivamente le 400.000 unità.
L’8 marzo cortei di donne si riversarono nelle strade approfittando
dell’occasione della festa della donna per chiedere pane.
La contemporanea serrata delle officine Putilov permise a oltre
20.000 operai di prendere parte attiva alla dimostrazione. Vi
fu qualche scontro con la polizia ma la giornata passò
nel complesso senza gravi conflitti. Era appena l’inizio.

Il 9 marzo il numero degli scioperanti fu stimato
in circa 197.000. Comizi e dimostrazioni si svolsero nel centro
della capitale. Malgrado gli ordini emanati, i cosacchi mostrarono
scarsa energia nel disperdere la folla: uno squadrone sfilò
lasciando indisturbato un assembramento sulla Prospettiva Nevskij.
Gli attacchi contro la polizia si fecero più frequenti.
La folla si serviva come armi di bastoni, pezzi di ghiaccio e
pietre asportate dal selciato. Tuttavia ancora non si erano usate
armi da fuoco per mettere fine ai disordini e ben pochi avevano
l’impressione di trovarsi di fronte a una crisi imminente.
Il 10 marzo fu una ripetizione su più larga scala del giorno
precedente. Lo sciopero divenne generale. I tram si fermarono.
I giornali non uscirono. Gli studenti abbandonarono le lezioni.
Crebbe il numero dei dimostranti. Crebbe il numero delle forze
impiegate dal governo. Crebbe il numero dei feriti da entrambe
le parti. L’indisciplina e la passività nelle file
dell’esercito divennero più evidenti. Un cosacco
colpì con la sciabola un ufficiale di polizia. La strategia
istintiva della folla si adattò agli umori delle truppe:
mentre attaccava violentemente la polizia, evitava di provocare
i soldati.
Quello stesso giorno il comandante militare di Pietrogrado ricevette
un telegramma perentorio dello zar, che si trovava a Mogilev,
sede del comando supremo dell’esercito, a quasi 800 chilometri
dalla capitale. Il telegramma diceva: «Vi ordino di far
cessare da domani tutti i disordini nelle strade della capitale,
inammissibili ora che la patria è impegnata in una difficile
guerra con la Germania». Quella sera il generale Chabalov,
comandante militare, diede istruzioni affinché si sparasse
sulla folla che rifiutasse di disperdersi.
L’11 marzo, che era una domenica, si sparò sulla
folla in diversi punti della città. Si ebbero una quarantina
di morti e un numero imprecisato di feriti. Verso sera vi fu un
tentativo di ammutinamento in una compagnia del reggimento Pavlovskij,
che però fu rapidamente soffocato. Il governo pensò
di aver rafforzato la propria posizione e prese la decisione di
sciogliere la Duma, cioè il Parlamento.
Il mattino del 12 marzo il capitano che entrò nella caserma
dove era acquartierato il reparto d’istruzione del reggimento
Volynskij fu accolto al grido di «non spareremo più!».
Il capitano lesse il telegramma dello zar, ma questo aggravò
la situazione: fu ucciso o si uccise e le truppe si riversarono
nelle strade al comando di un sergente, facendo insorgere i soldati
dei reggimenti acquartierati lì vicino. La massa ingrossata
dei soldati si avviò nel quartiere di Vyborg, dove immediatamente
fraternizzò con gli operai. Insieme si misero a dare la
caccia ai poliziotti e fecero irruzione negli arsenali, dove gli
operai si procurarono armi.
Nel pomeriggio del 12 marzo le truppe fedeli al regime erano ridotte
a non più di 2000 uomini su una guarnigione di circa 160.000
militari. Tutti gli altri o si erano uniti ai rivoltosi o si erano
volatilizzati. Eppure, ancora all’una e quarantacinque del
pomeriggio del 12 marzo il ministro della guerra inviò
un telegramma col quale ordinava di reprimere i disordini e far
tornare al più presto la tranquillità.
Nel frattempo, sempre il 12 marzo 1917, erano stati liberati dal
carcere i membri del gruppo operaio del Comitato dell’industria
di guerra, i deputati dei partiti di sinistra e alcuni rappresentanti
dei sindacati e delle cooperative. Poco dopo mezzogiorno essi
si costituirono in comitato esecutivo provvisorio del soviet (che
in russo vuol dire «consiglio») degli operai e stabilirono
di tenere una seduta nel palazzo di Tauride, sede del Parlamento,
per quella stessa sera.
Alla riunione parteciparono circa 250 delegati di fabbriche e
di reggimenti dell’esercito e si decise di fondare un’unica
organizzazione sotto il nome di «Soviet degli operai e dei
soldati». Esso cominciò subito ad assumere alcune
funzioni di potere, creando una commissione per regolare gli approvvigionamenti,
una milizia operaia in sostituzione della polizia, e autorizzando
la pubblicazione di certi giornali.
I
deputati della formalmente disciolta Duma, però, preoccupati
per la formazione del Soviet, istituirono un «Comitato per
il ristabilimento dell’ordine e delle istituzioni».
Poi decisero di formare un governo provvisorio, che entrò
in carica il 15 marzo. Il 14 marzo anche Mosca, la seconda città
del paese, era in mano ai rivoluzionari. Da quel momento la rivoluzione
di impose in tutta la Russia.
Frattanto i più alti ufficiali del comando supremo si erano
convinti che solo l’abdicazione dello zar poteva salvare
la monarchia e preservare la disciplina nell’esercito. In
pratica tutti i generali responsabili dei vari fronti inviarono
allo zar dei telegrammi con l’esortazione ad abdicare. Nicola
II non tentò di resistere. Poiché il figlio Alessio
era condannato dall’emofilia, il 15 marzo 1917 abdicò
in favore del fratello Michele, il quale tuttavia non avrebbe
regnato un solo minuto. La dinastia dei Romanov era finita.

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