"L'episodio di Carzano"

Prof. Andrea Saccoman

Nella notte del 12 luglio 1917 (o nella notte tra il 12 e il 13 luglio, se si preferisce) un sergente dell’esercito austro-ungarico, di nazionalità ceca, si presentò a un avamposto italiano a ovest di Strigno, in Valsugana. In italiano stentato, probabilmente imparato a memoria, disse di essere un parlamentare e di dover consegnare un plico a un Comando superiore italiano.
Tra dubbi, sospetti e incertezze, quando oramai albeggiava fu condotto al comando della 15a divisione. Consegnò davvero un plico a nome del suo comandante di battaglione. Dentro al plico c’erano schizzi che illustravano la sistemazione difensiva dell’intera divisione austriaca di cui l’ufficiale faceva parte. Sarebbe stato possibile superare i posti avanzati austriaci e penetrare nella linea di resistenza avversaria passando il ponte di Carzano, sul fondovalle del torrente Maso: zona tenuta proprio dal battaglione comandato dall’ufficiale che aveva mandato il plico.
Qualche giorno dopo il vicecapo del servizio informazioni della 1a Armata, il maggiore Cesare Finzi (poi Cesare Pettorelli Lalatta, 1884-1969), incontrava, nella terra di nessuno, l’autore del plico. Era il tenente di complemento Ljudevit Pivko (1880-1937), comandante interinale del I Battaglione del 5° reggimento fanteria bosniaco. Prima della guerra Pivko insegnava in una scuola superiore di Maribor (allora Marburg). Era sloveno e favorevole all’indipendenza del suo popolo dagli Asburgo. Si ricordi che il 1917 fu un anno chiave anche per la storia dei “popoli oppressi” come allora si diceva, e, grazie anche alla propaganda italiana, cresceva l’insofferenza nel multietnico Impero Austro-Ungarico.
In una serie di incontri, Pettorelli Lalatta si convinse della buona fede del suo interlocutore e dell’esattezza delle informazioni da lui passate agli italiani e pensa che sia possibile non un colpo di mano locale, ma una operazione in grande stile. Di fronte agli italiani non vi era che una sola divisione con un totale di dieci battaglioni sotto organico e un reparto mitraglieri.
Balenava la possibilità di arrivare a Trento e tagliare d’un sol colpo la ritirata a tutte le truppe nemiche schierate tra la Valsugana e il lago di Garda. Ai primi di agosto Pettorelli Lalatta ne parlò con il comandante della 1a Armata, Guglielmo Pecori Giraldi, il quale però gli rispose che l’armata di sua iniziativa non poteva fare niente. Bisognava parlarne direttamente a Cadorna. Ma Cadorna era occupatissimo prima con la preparazione e poi nella conduzione della 11a battaglia dell’Isonzo, per cui solo il 4 settembre riceve il maggiore e lo invita a esporgli tutto. Pettorelli Lalatta parlò quindi per due ore ininterrottamente. Cadorna prese tutta la documentazione portatagli per esaminarla ed invitò il maggiore a tornare dopo tre giorni.
Il 7 settembre Pettorelli Lalatta tornò e al colloquio erano presenti, oltre a lui e Cadorna, il generale Carlo Porro, vice di Cadorna, il colonnello Melchiade Gabba, da pochi giorni nuovo capo della Segreteria del Comando Supremo, il generale Donato Etna, comandante del XVIII Corpo d’Armata, quello della Valsugana, e interinalmente anche della 6a Armata, e il capo di stato maggiore di questa, generale Guido Fenoglio.
Cadorna aveva stabilito che alla prima irruzione partecipassero truppe pari a una divisione, sotto la direzione superiore del generale Etna. Dopo l’eventuale successo dell’operazione iniziale sarebbe intervenuto Cadorna stesso con altre truppe concentrate in zona adatta allo scopo di ottenere un risultato di portata strategica.
Purtroppo né il generale Etna né il generale Fenoglio, per altri versi più che ottimi ufficiali, avevano colto lo “spirito” che stava al fondo dell’operazione, e l’avevano concepita e organizzata come un colpo di mano per fare qualche guadagno locale e non come l’inizio di un’operazione in profondità di carattere strategico.
Per esempio, l’ordine di operazione di Etna prevedeva che le truppe avessero lo zaino regolarmente affardellato, coperta da campo, due giorni di viveri di riserva, eccetera: cioè un equipaggiamento troppo ingombrante per un’operazione che doveva avere nella velocità di movimento uno dei requisiti essenziali.
Per via delle infinite combinazioni di comandi che sempre accadono in guerra, e nella guerra italiana del 1915-18 forse più che in altri eserciti, accadde poi che tutti i comandanti che dovevano effettuare l’azione fossero “interinali”.

Tutto nasceva dall’esonero, il 20 luglio 1917, del generale Ettore Mambretti dal comando della 6a Armata dopo il fallimento dell’offensiva dell’Ortigara. Da quel momento all’Armata fu affidato un compito difensivo in un settore che pareva mantenersi tranquillo, e di conseguenza, con tutta l’attenzione concentrata sull’Isonzo fino ai primi di settembre, non vi fu nessuna fretta di trovargli un sostituto, lasciando il generale Etna al comando interinale. Poiché però quest’ultimo non poteva occuparsi con la stessa attenzione anche del comando del XVIII Corpo, lo sostituì, sempre interinalmente il generale Matteo Quaglia, comandante titolare della 15a divisione. Il comando della 15a divisione fu quindi affidato interinalmente al colonnello brigadiere Attilio Zincone (1869-1939), dal 29 maggio precedente comandante della Brigata Campania.
A Zincone fu anche affidato il comando delle truppe che dovevano effettuare la prima, e più importante penetrazione. Zincone prima di allora era stato un buon ufficiale di stato maggiore ma non aveva ancora comandato truppe in combattimento. I reparti a disposizione del comando 15a Divisione erano i seguenti:

Brigata Campania (135° e 136° Rgt. Fanteria)
LXXI Btg. Bersaglieri
LXXII Btg. Bersaglieri
I, VII e XI Btg. Bersaglieri ciclisti
Btg. d’assalto della IV Brigata Bersaglieri
Compagnia d’assalto della 6a Armata
Btg. Alpini Valtellina (compagnie alpine 246a, 248a, 249a)
e Val Brenta (compagnie alpine 262a, 263a, 274a)
Di riserva erano:
LIV Btg. Bersaglieri
XV gruppo alpino, creato ad hoc il 17 settembre con i battaglioni Val Cenischia (cp. alpine 234a, 235a, 236a), Val Maira (217a, 218a, 219a) e Val Leogra (259a, 260a, 261a)
IV, VI, VIII Btg. Bersaglieri ciclisti
Artiglieria:
19° Rgt. Artiglieria da campagna (in organico regolamentare alla 15a Divisione, 32 pezzi da 75/27 più una batteria da montagna su 4 pezzi)
2 Batterie di cannoni da 149/35
3 Batterie di cannoni da 105/28
2 Batterie di cannoni da 102/35
1 Batteria di obici pesanti campali 149/12
4 Batterie da montagna
Genio:
LXVII Btg. Zappatori con sezione telefonica (organico regolamentare 15a Divisione)

I congiurati del tenente Pivko avrebbero tolto la corrente elettrica dai reticolati, aperto i varchi, tenuto libero il ponte sul torrente Maso, narcotizzato i militari del battaglione, tagliato i fili telefonici.
Verso le ore 17 del 17 settembre 1917 le truppe destinate all’azione, suddivise in 14 colonne succedentisi in ordine numerico progressivo, mossero dalle posizioni di raccolta verso la località di partenza, Strigno.
Il maggiore Pettorelli Lalatta era sul posto, e marciò da Strigno alla testa della prima colonna. A notte fonda fu superata la linea avanzata, fu varcato il ponte sul Maso e alle due antimeridiane del 18 settembre Pettorelli giunse con il LXXII Battaglione Bersaglieri a Carzano, dov’era Pivko con alcune sue guide. L’intero presidio di Carzano cadde nelle mani degli italiani e i prigionieri furono riuniti nella chiesetta del paese.
Tutto sembrava avviato per il meglio, ma le altre truppe che dovevano giungere non giunsero. Per una serie di motivi quali carenza nelle comunicazioni, mancanza di adeguata visione del generale Zincone, e altri che mai si potranno conoscere, alcune colonne persero i contatti con quelle che le precedevano, si verificarono ingorghi e intasamenti e quindi, invece di raggiungere il proprio obiettivo, si erano arrestate più indietro.
Malgrado i tentativi di proseguire l’operazione, e le corse del maggiore Pettorelli Lalatta fino a Strigno, arrivarono le prime luci del giorno, gli austriaci furono messi in allarme e reagirono con fuoco d’artiglieria e di mitragliatrici concentrato su Carzano e sul ponticello sul Maso. Al LXII Battaglione Bersaglieri non pervenne l’ordine di ripiegare, si ritrovò accerchiato e andò in gran parte perduto. Il suo comandante, maggiore Giovanni Ramorino, rimasto ultimo con i resti che attraversavano il ponte sotto il fuoco, fu colpito, cadde nel torrente e scomparve. Così finì l’azione e andò sprecata una occasione davvero speciale.
Cadorna volle sapere tutto dal maggiore Pettorelli Lalatta e il giorno dopo ordinò un’inchiesta che fu condotta dal generale Mario Nicolis di Robilant, comandante della 4a Armata. L’operazione, come scrisse Cadorna, «se ben combinata e ben eseguita aveva in sé tutti gli elementi del successo».
Lo stesso 18 settembre 1917, egli ragguagliava il figlio Raffaele sulla mancata impresa: «fiasco completo! Hanno trovato qualche varco aperto, sono passati con comodo di là, hanno catturato 200 prigionieri e non hanno potuto andare avanti (dicono) allegando il terreno difficile e l’oscurità, mentre Etna tre giorni prima mi aveva detto che, se pioveva e c’era nebbia, era meglio. Nota bene che l’allarme è stato dato cinque ore dopo l’inizio [dell’operazione]! Secondo me, non c’è stato né l’animo in chi doveva dirigere né la risoluzione in chi doveva eseguire. Cosa vuoi concludere con gente simile? Decisamente non abbiamo ciò che ci vuole per le grandi imprese».
Per la cronaca: Pivko e i suoi «congiurati» ovviamente passarono da parte italiana per evitare di essere impiccati come traditori.