Quartier generale di Udine, sera del 24 Ottobre:
“…..se le truppe mi cedono come le mura di Gerico alle trombe non so che farci. Se succede un disastro daranno la colpa a me! Io di più non potevo fare, ho fatto più del possibile: ho tratto dal nulla un esercito e ora non posso sostituirmi a due milioni di soldati dei quali la maggior parte non ha voglia di battersi”.
Cadorna getta la prima pietra del suo monumento difensivo: se si perderà la colpa sarà dello sciopero dei soldati.

(Gianni Rocca, Cadorna il generalissimo di Caporetto)

Il piano d’irruzione da Plezzo a Tolmino era nato da un ardito concetto del generale di fanteria Alfred Krauss, comandante del gruppo schierato a nord, e aveva finito con il riscuotere anche l’approvazione del generale Otto von Below: contro il principio, sino allora considerato sacro, che l’offensiva in montagna doveva partire dalle alture dominanti, stavolta l’attacco sarebbe stato sferrato in maniera da irrompere sulle posizioni del fondovalle, eludendo e, se possibile, accerchiando i crinali presidiati dal nemico.
(Fritz Weber, Dal Monte Nero a Caporetto)

Non si è mai capito bene perché i 400 cannoni di Badoglio abbiano taciuto, nell’alba nebbiosa del 24 ottobre 1917. Ora dalla cima del Kolovrat ci si butta con il parapendio. Vista da quassù, la vallata dove passarono i tedeschi sembra un bersaglio facile. Si è pensato che Badoglio volesse lasciar entrare il nemico nella trappola per colpirlo con comodo. In realtà, i tedeschi intercettavano le sue comunicazioni radio: ovunque il generale si spostasse, veniva individuato e bersagliato; distrutte le linee telefoniche, sovrastate dal fragore le «trombette bitonali», abbattuti pure i piccioni viaggiatori. La nebbia fece il resto. L’ordine di aprire il fuoco non arrivò mai. Eppure sapevamo tutto. Fin da sabato 20 ottobre, quando un disertore boemo, il tenente Maxim, si è consegnato con notizie dettagliate sull’attacco imminente. L’Isonzo restituisce un cadavere con la divisa dei tedeschi: ci sono anche loro. Lunedì 22 ottobre arriva il re, che viene avvisato: la situazione è drammatica. Vengono fatti saltare i ponti sul fiume. L’editoriale del Corriere della Sera annuncia un’offensiva nemica alle porte. Martedì 23 ottobre Cadorna tiene consiglio di guerra, sotto un ippocastano. I suoi generali sono quasi tutti piemontesi come lui: Capello, Badoglio, Bongiovanni, Cavaciocchi, Cavallero (che è ancora colonnello). Si parla dialetto; Caviglia, che è ligure di Finale, si arrangi. Cadorna è disperato: «Mio padre prese Roma, a me tocca perderla!». Badoglio si è appena sfogato con l’attendente: «Ce la siamo data a intendere gli uni con gli altri, e adesso è finita! Non c’è più nulla, neanche lo stellone!». Ma ora di fronte al comandante in capo che lo incalza — «e chiel? L’on ca fa chiel?», lei cosa fa? — ostenta tranquillità: «Mi? A mi ‘n manca gnente. Mi manca solo un campo di prigionia per i nemici che cadranno nelle nostre mani». Cadorna gli mette una mano sulla spalla.

Alle 2, le bombe
Pochi giorni dopo, nelle mani nemiche cadranno 300 mila prigionieri italiani. Altrettanti, forse più, gli sbandati. Uno dei misteri di Caporetto è che Badoglio, anziché essere rimosso come Cadorna e Capello, sarà promosso capo di Stato maggiore dell’esercito. Il bombardamento comincia alle 2 del mattino di martedì 24 ottobre. La terra trema. Tempeste di ferro e nubi di fuoco si abbattono sulle nostre linee. Ma presto la battaglia si fa silenziosa. Gli italiani presidiano le cime; tedeschi e austriaci passano nel fondovalle. Piccoli gruppi, armati di mitragliatrici leggere e mortai da assalto, fanno prigionieri interi reggimenti: si distingue un tenente di 26 anni, Erwin Rommel. Troppi soldati italiani in prima linea, spesso tagliati fuori dal combattimento; troppi pochi nella seconda linea, travolta in poche ore. A Nord, nella conca di Plezzo, il silenzio è assoluto. Nell’aria odore di mandorle amare. Per sapere se i tedeschi hanno usato il gas, il comando di divisione manda in prima linea un graduato, che informa: «I soldati sono tutti al loro posto, col fucile fra le mani e la maschera al volto». Annota l’aspirante ufficiale Giovanni Comisso: «Quei soldati erano impietriti dalla morte, che la piccola e miserabile maschera non era servita a impedire». Almeno 800 asfissiati. Il comandante tedesco, conte Otto von Below, annota compiaciuto: «L’effetto del gas è devastante». Ora la conca di Plezzo ospita un campo da golf.

Il caffè di Katerina
Piove. Le truppe sulle cime sono accecate da nebbia e nuvole. Alcuni intravedono divise austriache passare giù in basso, ma pensano siano prigionieri scortati dai commilitoni. Altri non si accorgono quasi di nulla. Come il tenente Carlo Emilio Gadda, che d’un tratto si scopre circondato dal nemico. Nel pomeriggio a Roma parla alla Camera il ministro della guerra, generale Giardino: «Venga pure l’attacco! Noi non lo temiamo!». Nello stesso momento, le avanguardie tedesche scese da Plezzo e dalla testa di ponte di Tolmino sono già nel primo villaggio, che darà il nome al disastro e alla sindrome della sconfitta che da allora grava sull’Italia: Caporetto. Oggi si chiama Kobarid. Dei 4.472 abitanti nessuno è di origine italiana. Il campanile era a punta; l’hanno rifatto a cipolla, come sarebbe piaciuto all’imperatore. Nel piccolo, prezioso museo si avvicendano in un giorno dieci scolaresche: tutte slovene. Nell’Isonzo si fa rafting e kayak. Le uniche insegne in italiano sono quelle dei casinò, delle spa, dei dentisti. Anche quando i bersaglieri sono entrati a Caporetto il 25 maggio 1915, primo giorno di guerra, gli abitanti erano tutti sloveni. L’unica che parlava italiano, Katerina Medves, in segno di pace ha fatto il caffè; i nostri non si sono fidati, l’hanno fatto bere prima a lei. Gli alpini del battaglione Exilles hanno preso subito — Dio solo sa come — il Monte Nero, una parete di duemila metri a picco sull’Isonzo. Poi il fronte è rimasto quasi fermo per oltre due anni. Migliaia di morti per avanzare di pochi metri. All’improvviso gli italiani devono retrocedere per 150 chilometri.

Il saluto con la pipa
La rotta è totale. Il generale Farisoglio ordina alla sua divisione di ritirarsi, e fugge in automobile: finisce in braccio ai tedeschi. Nel seminario di Cividale sono ricoverati oltre duemila feriti, tre per letto. Anche il generale Amadei precede i suoi uomini in ritirata. Sul Rombon già innevato tengono magnificamente gli alpini piemontesi, riscattando l’insipienza dei compatrioti in alta uniforme: gli Schuetzen non avanzano di un passo contro i battaglioni Dronero, Saluzzo, Borgo San Dalmazzo, Ceva, Argentera, Monviso. Ma giù in basso il generale Arrighi dà l’ordine di abbandonare la gola di Saga, senza combattere. Gli austriaci vi si infilano esultando, increduli. Gli alpini del Rombon, scrive Mario Silvestri nel suo libro divenuto un classico, Caporetto, «sono abbandonati alla loro sorte: la morte per gelo o la resa». Il generale Rossi incita a resistere «sino all’ultimo uomo», e se ne va per primo. Le strade sono intasate. Il generale Andrea Graziani trova il tempo di far fucilare il fante Alessandro Ruffini, che l’ha salutato senza togliersi la pipa di bocca (c’è chi dice un sigaro). Si vedono scene miserevoli: soldati si inginocchiano per aver salva la vita, qualcuno bacia le mani ai vincitori, altri gridano «viva l’Austria, viva la Germania, viva il Papa!». Il generale Villani si spara in testa.