Prof.
Andrea Saccoman
Si è già avuto modo di rievocare
la rivoluzione del marzo 1917 che portò alla caduta dello
zar Nicola II e il fallimento dell’offensiva Kerenski nel
luglio successivo che segnò l’inizio della dissoluzione
dell’esercito russo. Dopo di allora le condizioni interne
della Russia non fecero che andare sempre più in direzione
del caos. Sin dall’aprile il leader del partito bolscevico
Vladimir Ilic Uljanov, in arte Lenin, era rientrato in Russia
dall’esilio svizzero, anche grazie all’aiuto tedesco,
e da quel momento lavorò per la rivoluzione socialista.
Agli inizi di novembre del 1917 era arrivato il momento della
resa dei conti fra il governo provvisorio e i bolscevichi, fra
i quali Lenin più degli altri aveva capito che bisognava
prendere il potere.
Militarmente parlando, per i rivoluzionari era fondamentale impadronirsi
della fortezza di Pietro e Paolo, costruita su di un’isola
del fiume Neva, a Pietrogrado (oggi San Pietroburgo, come del
resto la città si era chiamata fino al 1914). I suoi cannoni
dominavano il Palazzo d’Inverno (sede del governo provvisorio)
e il suo arsenale era vitale tanto per il governo che per i rivoluzionari.
Nel pomeriggio del 5 novembre 1917 Trotzky, uno dei dirigenti
del partito bolscevico, si recò alla fortezza, si imbatté
in uno dei comizi tra soldati che erano divenuti abituali dopo
la rivoluzione di marzo e prese la parola. Il suo discorso riuscì
a convincere i soldati a passare dalla parte dei rivoluzionari.
Una delle maggiori roccaforti del governo provvisorio cadde quindi
senza resistenza.
L’arsenale della fortezza fornì una buona quantità
di fucili alla «guardia rossa», ossia il braccio armato
del partito. Essa era composta di operai delle industrie inquadrati
e addestrati alla maniera militare: certo, secondo i canoni di
una autentica organizzazione militare, essa era un corpo dilettantesco
che non avrebbe potuto tener testa a reparti di veri soldati adeguatamente
comandati.
Quasi tutte le unità della guarnigione di Pietrogrado,
però, erano favorevoli o indifferenti rispetto al progettato
colpo di mano bolscevico. La sola forza armata sulla quale il
governo provvisorio potesse fare sicuro affidamento erano gli
allievi delle scuole militari della capitale, i quali erano inferiori
ai proletari armati sia per numero che per determinazione.
Di fronte alla tensione crescente il governo, da parte sua, aveva
deciso che era venuta l’ora di reagire, in qualche modo,
se voleva sopravvivere. La sera del 5 novembre un consiglio dei
ministri decise di sopprimere i giornali bolscevichi per «istigazione
alla rivolta», di arrestare immediatamente tutti i bolscevichi
che stavano prendendo parte all’agitazione antigovernativa
e di aprire un procedimento penale contro i membri del comitato
militare rivoluzionario. Fu anche deciso di spostare dalla periferia
al centro della città i reparti militari considerati fedeli.
Alle 5.30 della mattina del 6 novembre un commissario del governo,
con un distaccamento di allievi ufficiali, si presentò
alla tipografia dei giornali bolscevichi con l’ordine di
soppressione, distrusse il materiale tipografico e confiscò
8000 copie dei giornali. Un battaglione di donne, chiamato «Battaglione
della Morte», si presentò al Palazzo d’Inverno
e si schierò con gli allievi delle scuole militari, che
insieme ai cosacchi furono i soli difensori della sede del governo.
Il comitato militare rivoluzionario, da parte sua, rispose prontamente
e dopo aver mandato soldati favorevoli alla rivoluzione nelle
tipografie, alle 11 i giornali bolscevichi poterono uscire. Già
in queste prime avvisaglie il governo mostrava la propria inferiorità
rispetto al comitato militare rivoluzionario.
Il 6 novembre il comitato centrale del Partito bolscevico tenne
una seduta per definire gli ultimi particolari della rivolta.
Lenin non era presente. Su proposta di Trotzky fu stabilito di
formare una base strategica di riserva nella fortezza di Pietro
e Paolo nel caso che le truppe governative costringessero all’evacuazione
dell’istituto Smol’nyj, quartier generale del partito
bolscevico.
Il piano prevedeva di sferrare un attacco contro il Palazzo d’Inverno
nella notte del 6 novembre con le forze combinate di un distaccamento
di marinai della base di Kronstadt e della guardia rossa del quartiere
di Vyborg, sostenute dai tiri di artiglieria dell’incrociatore
Aurora, il cui equipaggio parteggiava tutto per i bolscevichi.
Alle 2 antimeridiane del 7 novembre 1917 furono occupate le principali
stazioni ferroviarie; alle 3.30 l’Aurora si ancorò
presso il ponte Nikolajevskij e fece sbarcare una parte dei marinai,
che sloggiarono gli allievi ufficiali posti a guardia del ponte.
Alle 6 fu occupata la Banca di Stato; alle 7 fu occupata la centrale
telefonica e furono tagliate le comunicazioni del Palazzo d’Inverno
e del comando militare di circoscrizione. Contemporaneamente una
pattuglia bolscevica si appostò al ponte del Palazzo d’Inverno.
Il capo del governo, Aleksandr Kerenskij, verso le dieci del mattino
si convinse che la sua ultima speranza era di recarsi al fronte
e tornare alla testa di rinforzi. Si riuscì a trovare un’automobile
di proprietà dell’ambasciata statunitense e verso
le undici Kerenskij lasciò Pietrogrado sfuggendo alle pattuglie
bolsceviche, tratte in inganno dal guidoncino a stelle e strisce.
A quel punto il Palazzo d’Inverno si sarebbe potuto prendere
subito. Ma un po’ perché non perfettamente consapevoli
della debolezza degli avversari, un po’ per propria insipienza,
i bolscevichi aspettarono fino a sera.
L’operazione divenuta il simbolo stesso della «Rivoluzione
bolscevica», la presa del Palazzo d’Inverno, ebbe
inizio intorno alle 18.50 del 7 novembre 1917, quando due ciclisti
della fortezza di Pietro e Paolo presentarono un ultimatum al
comando della circoscrizione militare di Pietrogrado chiedendo
la resa del Palazzo entro venti minuti. In caso di resistenza
il Palazzo sarebbe stato bombardato dalla fortezza Pietro e Paolo,
dall’Aurora e da altre navi da guerra stazionate sulla Neva.
L’ultimatum fu respinto, ma per alcune ore non successe
nulla. Intorno alle 21.40 l’Aurora sparò un colpo
a salve che era il segnale per l’assalto. Ne seguì
una sparatoria di fucili e mitragliatrici che durò più
o meno un’ora. Dopodiché cominciò il bombardamento,
che fece però pochi danni.
Alla fine gli assedianti entrarono nel Palazzo e lo occuparono,
piano dopo piano, sala dopo sala, fino a raggiungere la sala centrale
del Palazzo, dove si erano rifugiati i ministri del governo. Un’ultima
schiera di allievi fedeli montava la guardia, ma non appena i
reparti bolscevichi si avvicinarono si arresero senza opporre
resistenza. I ministri furono arrestati. Erano circa le due del
mattino dell’8 novembre 1917. Le perdite nella presa del
Palazzo d’Inverno furono molto basse: forse sei morti e
pochi feriti tra gli assalitori e, a quanto pare, nessuna vittima
tra i difensori.
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