La guerra e le donne

Prof. Andrea Saccoman

È risaputo che nel corso della Prima Guerra mondiale vi fu un notevole aumento delle donne impiegate in lavori retribuiti.
Prima della guerra, in Gran Bretagna, 1 milione 600 mila donne lavoravano come domestiche, equivalenti, approssimativamente, a un quarto della forza lavoro femminile. Le altre lavoravano nelle sartorie, nei laboratori di ceramica, nella tessitura. Circa il 90% delle lavoratrici retribuite non erano sposate e appartenevano alle classi umili. Anche nella classe operaia, all’epoca, il matrimonio era visto come un’occasione per smettere di lavorare fuori casa. Con lo scoppio della guerra, man mano che sempre più maschi si arruolavano, cresceva la manodopera femminile. Nei primi dodici mesi di guerra, tuttavia, furono assunte circa 400.000 donne e 1 milione di uomini: i maschi disoccupati furono comunque la prima scelta dei datori di lavoro. L’assunzione delle donne divenne sempre più necessaria dopo l’applicazione della coscrizione obbligatoria e la creazione del Ministero delle munizioni. Ma per lo più, e ciò fu vero per tutti i belligeranti, si trattò di donne lavoratrici che da domestica o cameriera divennero impiegate od operaie, e non di casalinghe immesse per la prima volta nel mondo del lavoro. In complesso le donne lavoratrici crebbero da circa 5 milioni e 900 mila nel 1914 a 7 milioni e 300 mila nel 1918. La loro paga, sempre più bassa di quella maschile a parità di mansioni, crebbe dalla metà ai due terzi di quella di un uomo.
Una conclusione generale valida per tutti i belligeranti, Italia inclusa, è che nel complesso le condizioni di vita della stragrande maggioranza delle donne lavoratrici cambiarono poco rispetto all’anteguerra.
In Italia la visione tradizionale della donna come angelo del focolare o al massimo, in tempo di guerra, come crocerossina, era più forte che in Gran Bretagna, e gli stessi lavoratori maschi fecero resistenza all’assunzione di manodopera femminile convinti che ciò avrebbe aumentato le probabilità di essere spediti al fronte. Nel dicembre 1916 le donne impiegate negli stabilimenti della Mobilitazione Industriale erano circa 76.000. Nell’agosto 1918 erano salite a circa 258.000. Alla fine della guerra le donne rappresentavano circa il 22% della forza lavoro, ma con enormi differenze tra industria e industria e da regione a regione.
Le reazioni degli operai maschi alla mobilitazione femminile nelle fabbriche di guerra furono in genere di diffidenza e paura della “mascolinizzazione” delle donne. In Francia, per esempio, nacquero espressioni linguistiche che nell’apparente tenerezza o ammirazione per la lavoratrice nascondevano invece il desiderio di non mutare i rapporti tra i sessi: “infilare i proiettili come perle” o il grazioso diminutivo di munitionette per indicare la lavoratrice delle fabbriche di munizioni, modellato su midinette, cioè la sartine. Con tale espressione si metteva in evidenza che la grazia femminile non veniva meno persino nella fabbricazione di ordigni destinati a provocare la morte. In Germania e in Austria-Ungheria si ebbero le stesse dinamiche, con la differenza che finché fu possibile prigionieri di guerra o lavoratori stranieri furono preferiti alla manodopera femminile.
Se la guerra abbia accelerato o addirittura determinato la conquista dei diritti civili è questione anch’essa controversa. La Finlandia, possedimento zarista che però in quanto Granducato autonomo godeva di larghi margini di manovra nelle questioni interne, concesse il diritto di voto alle donne già nel 1906, in Norvegia nel 1913 e in Danimarca (che restò neutrale) nel 1915. Cioè in questi paesi i movimenti per il diritto di voto alle donne avevano ottenuto il loro obiettivo prima della guerra.
Negli Usa la guerra non ebbe un grande effetto sulla battaglia delle suffragette, sia perché il paese entrò tardi nel conflitto, sia perché il conflitto fu combattuto lontano da casa: il 19° emendamento fu ratificato il 18 agosto 1920 e da allora le donne americane ottennero il diritto di voto a livello federale.
Nel Regno Unito la legge 6 febbraio 1918 concedeva il diritto di voto alle donne che avessero compiuto trent’anni e fossero proprietarie o mogli di proprietari o laureate nelle università inglesi. Solo nel 1928 si ebbe finalmente la parità assoluta di diritti politici tra uomini e donne e l’età del voto abbassata a 21 anni anche per le donne. In Italia, come si sa, una legge per il voto femminile fu discussa nel 1919 ma poi decadde per la fine della legislatura. Si dovrà attendere il 1946 perché le donne votassero per la prima volta.
È però vero che in Italia, nel corso della Grande Guerra, per la prima volta delle donne divennero tranviere, ferroviere, postine, impiegate di banca, impiegate statali, operaie nelle fabbriche di armamenti. Ciò comportò un mutamento dei confini tra compiti e ruoli, una imprevista mescolanza dei generi e per molte donne un nuovo senso di libertà: vivere sole, uscire sole, assumersi da sole certe responsabilità erano cose che prima della guerra sembravano impossibili o pericolose, e con la guerra divennero invece per molte donne possibili, anche se non sempre accettate di buon grado dai maschi.