L'Arma aerea nel 1918

Prof. Andrea Saccoman

Nel 1918 il materiale dell’arma aerea italiana migliorò. Per la ricognizione i vecchi Caudron G3 furono sostituiti da nuovi biplani Pomilio, dotati di motori Fiat da 260 Hp, che potevano volare a oltre 160 km/h, anche se forse il miglior ricognitore italiano fu l’Ansaldo S.V.A. 5, progettato come caccia ma passato alla ricognizione. La caccia ebbe velivoli Spad e Hanriot e i triplani Caproni da bombardamento furono dotati di nuovi motori Isotta-Fraschini più potenti e più affidabili.
Sul piano dell’amministrazione centrale, la quinta arma aveva ricevuto più ampia autonomia con il Regio decreto 1° novembre 1917 n. 1813, che all’art. 1 stabiliva: «Per la durata della guerra tutte le attribuzioni del Governo per quanto ha rapporto alla aereonautica sono esercitate da un commissario generale avente sede presso il Ministero della armi e munizioni, nominato con decreto Reale, su proposta del presidente del Consiglio dei ministri». Con decreto in pari data, infatti, l’onorevole Eugenio Chiesa (1863-1930) fu nominato Commissario Generale per l’Aeronautica.
Alla battaglia del Piave l’aeronautica italiana schierò 553 velivoli operativi al fronte: 221 caccia, 56 bombardieri, 276 ricognitori. A quel punto l’esercito italiano aveva l’assoluto controllo dei cieli rispetto al nemico. La ricognizione era stata in grado di spingersi sino al lago di Costanza e aveva potuto notare in anticipo i movimenti del nemico. Anche l’aeronautica della Marina nel 1918 surclassava la sua omologa austro-ungarica, con 600 idrovolanti, 17 dirigibili e 500 piloti operativi, ed era in grado di colpire le basi navali nemiche sull’altra sponda dell’Adriatico.
Il 9 agosto 1918 Gabriele D’Annunzio condusse il celeberrimo raid su Vienna, al quale pensava dall’inizio della guerra. Undici S.V.A. decollarono alle 5.30 del mattino dal campo di San Pelagio, vicino a Padova. Tre dovettero tornare subito indietro per guasti e sempre per un guasto un quarto fu costretto ad atterrare a Wiener Neustadt, a pochi chilometri dall’obiettivo, e andò perciò perduto. Gli altri sette arrivarono sopra Vienna alle 9.10 del mattino. La capitale nemica fu bombardata soltanto con volantini, ma il successo propagandistico fu enorme. Alle 12.40 la squadriglia completava la missione atterrando a San Pelagio, dopo circa mille chilometri di volo.
Benché per tutta la durata della guerra l’Italia dipendesse dalla Francia per la fornitura di caccia efficienti, l’industria nazionale riuscì a produrre buoni bombardieri e buoni ricognitori. La Caproni realizzò 40 biplani trimotori CA3 (tre motori da 150 Hp l’uno), 255 biplani trimotori CA5 (tre motori da 250 Hp l’uno) e 35 triplani trimotori CA4 (tre motori da 210 Hp l’uno).
In particolare funzionò la produzione di motori. Tanto la Fiat quanto la Isotta-Fraschini e l’Ansaldo seguirono identici programmi di perfezionamento dei motori a sei cilindri a V per ottenere la massima potenza col minimo peso. Nel 1918 stavano cominciando a sviluppare motori da 12 cilindri a V con potenze tra i 500 e i 600 cavalli. Nel mese di settembre la Fiat produsse una media di 37-38 motori al giorno e stava arrivando a 40-42 quando la guerra finì, cioè tra i 1000 e i 1200 motori al mese.
La Fiat fu così in grado di costituire una riserva di 1000 motori da fornire agli alleati in cambio di materie prime. Ci furono anzi lamentele che il ritardo da parte dei francesi nel fornire materie prime rallentava la produzione. A loro volta i francesi si preoccupavano delle conseguenze che la capacità produttiva della Fiat poteva avere nell’economia del dopoguerra.
Le industrie belliche italiane, nel compesso, erano meno dipendenti dal governo di quanto fossero quelle francesi e sembrerebbe che la Fiat avesse cominciato a riconvertire la propria produzione già nel corso nell’agosto 1918, usando lo stato di guerra per procurarsi materie prime, macchinari e impianti da utilizzare per il dopoguerra. La Fiat intendeva trasformare gli impianti usati per produrre motori d’aeroplano in stabilimenti per costruire materiale ferroviario, macchinari agricoli e automobili. Il timore dei francesi era che l’impresa torinese volesse inondare il loro mercato mentre le fabbriche francesi erano ancora impegnate a produrre materiale bellico.
Il Governo italiano, da parte sua, pensava fosse conveniente avere dalla Francia carri armati in cambio di automobili. La guerra non era ancora finita e già gli alleati di oggi cominciavano a riposizionarsi per la competizione economica di domani.