I prigionieri italiani
nella Grande Guerra

Prof. Andrea Saccoman

Rispetto a Francia, Regno Unito e Stati Uniti l’Italia ebbe un numero di prigionieri e di morti in prigionia enormemente superiore, sebbene la questione sia stata per decenni elusa dalle statistiche ufficiali delle perdite subite dall’esercito italiano, tant’è che le cifre esatte probabilmente non si riuscirà mai a stabilirle.
Gli italiani fatti prigionieri furono circa 600.000, dei quali la metà in conseguenza della rotta di Caporetto. I morti furono circa 100.000, ma non si conosce il numero di morti in campi di prigionia ubicati nelle regioni più sperdute della Germania e dell’Austria-Ungheria e finite dopo la guerra sotto la sovranità dei nuovi stati nati allora, così come quello dei morti nelle compagnie di lavoratori dislocate anch’esse in regioni periferiche o in Turchia, Bulgaria o altre regioni balcaniche.
Gli ufficiali prigionieri furono 19.500 e ne morirono 550. Quindi la quasi totalità dei 100.000 morti furono soldati di truppa. Insieme alla Russia e ai paesi balcanici l’Italia ebbe la più alta percentuale di prigionieri morti rispetto ai catturati. La Francia ebbe a un dipresso lo stesso numero di prigionieri e le stime dei morti oscillano intorno ai 40.000.
Le convenzioni dell’Aja del 1899 e del 1907 avevano stabilito che i prigionieri dovevano essere mantenuti a spese dello Stato che li aveva catturati e il trattamento doveva essere equivalente a quello delle truppe dell’esercito di tale Stato. Le potenze dell’Intesa avevano però posto il più rigido blocco economico agli Imperi centrali e presto Germania e Austria-Ungheria ebbero difficoltà di approvvigionamento. Forse esagerandole all’inizio, proprio per evidenziare la crudeltà del blocco, Germania e Austria-Ungheria dichiararono di non essere in grado di rispettare le convenzioni, quando la loro stessa popolazione civile doveva vivere con i beni razionati. Grazie anche alla pressioni della Croce Rossa Internazionale Francia, Regno Unito e Stati uniti d’America (dopo il loro ingresso in guerra) spedirono ai prigionieri aiuti collettivi a spese dello Stato con treni di viveri, indumenti, medicinali, generi di conforto. Furono anche stipulati accordi per lo scambio di prigionieri, dapprima per i feriti più gravi, poi per i meno gravi e anche i sani, in base a determinate condizioni.
Il governo italiano, invece, non volle attuare nessuna misura pubblica di aiuto ai propri prigionieri di guerra. Permise soltanto la spedizione di pacchi privati da parte delle singole famiglie, oltre allo scambio di prigionieri secondo le convenzioni vigenti. Però i prigionieri erano tanti, il caos della guerra complicava da solo le cose, e perciò l’iniziativa delle famiglie risultò insufficiente in modo drammatico. Nei luoghi più distanti i pacchi arrivavano con grandi ritardi che, nel caso di alimenti deperibili, avevano il risultato di renderli inservibili; i pacchi che arrivavano a destinazione erano meno di quelli spediti, soprattutto perché ingolfati nei centri di smistamento, in parte perché sottratti lungo il tragitto dagli addetti, talvolta affamati quanto i prigionieri. Soltanto gli ufficiali poterono avvalersi di aiuti collettivi organizzati dalla Croce Rossa dietro pagamento da parte dei familiari e trasportati su treni che viaggiavano sotto controllo internazionale.
Il Comando Supremo italiano partiva dalla convinzione che quanti erano stati fatti prigionieri si fossero arresi volontariamente, almeno la maggior parte, convinti che in prigionia avrebbero evitato la morte e le durezze del servizio al fronte. Perciò quanto più cattive fossero state le condizioni di vita nei campi di prigionia, tanto più ciò avrebbe funzionato come deterrente al desiderio di farsi catturare.
Cadorna riuscì a far proibire persino le collette di denaro o la raccolta di generi di prima necessità per quei prigionieri la cui famiglia non era in grado di spedire dei pacchi (ed erano tanti). Nel caso di sospetta diserzione, spesso impossibile da provare, si fece addirittura cessare il sussidio che le amministrazioni comunali elargivano ai familiari poveri di militari richiamati. Si pensava poi che i pacchi potessero essere utilizzati per sfamare la popolazione nemica e che quindi l’invio di aiuti ai prigionieri fosse un indiretto aiuto al nemico.
Dopo Caporetto la situazione non mutò. Anzi, l’interpretazione della sconfitta come dovuta a uno “sciopero militare” rafforzava l’idea che tutti i prigionieri presi in quella occasione fossero responsabili di “diserzione in faccia al nemico” o di essersi arresi senza aver opposto adeguata resistenza.
La maggior parte dei prigionieri italiani fu detenuta in campi ubicati nel territorio dell’Impero austro-ungarico. I principali, e più noti, furono: Mauthausen (il più grande campo di prigionia di militari italiani), Sigmundsherberg, Katzenau (nei pressi di Linz) in Austria, Theresienstadt, oggi Terezin in Boemia (Repubblica Ceca), Josefstadt, oggi Josefovice in Moravia (Repubblica Ceca), Milowitz, oggi Milovice sempre in Moravia, Dunaszerdahely, oggi Dunajská Streda in Slovacchia, Nagymegyer, oggi Vel’ký Meder in Slovacchia, Csòt vicino a Pápa, oggi nel distretto di Veszprém in Ungheria. In Germania prima di Caporetto c’erano sì e no mille prigionieri italiani; alla fine della guerra ce n’erano 170.000. I principali campi furono quello di Celle nell’Hannover, Meschede in Westfalia, Ellwagen e Rastatt nel Baden-Württemberg, Langensalza in Turingia.
Le condizioni di vita dei prigionieri peggiorarono col procedere della guerra per il peggiorare delle stesse condizioni di vita all’interno dell’Austria-Ungheria e della Germania. La fame restò il problema più grande. Gli ufficiali tutto sommato se la cavarono, poiché anche in assenza di pacchi dalle famiglie le autorità dei campi fornirono loro sempre un vitto pari a circa 1400 calorie al giorno, mentre per i soldati erano a malapena 900.
Tale situazione era ancor più grave perché i soldati erano adibiti a lavori pesanti come costruzione di strade, ferrovie, fortificazioni, nelle cave di pietra, nelle miniere di carbone, nel taglio della legna, con turni di dodici o anche quattordici ore. Condizioni di vita decenti incontrarono invece i soldati impiegati nei lavori agricoli, perché avevano la possibilità di avere cibo sufficiente e quasi sempre facevano qualcosa che corrispondeva a quanto facevano nella vita civile prima di partire per la guerra.
Dopo la fame il freddo fu il secondo fattore di morte. Nell’inverno a cavallo tra il 1917 e il 1918 le temperature minime scesero sia in Austria che in Germania fino a 29 gradi sotto zero. Nelle baracche non c’era riscaldamento e di notte la temperatura restava dieci o dodici gradi sotto zero. Spesso i soldati non avevano indumenti adeguati perché li avevano barattati in cambio di cibo.
Nell’ultimo anno di guerra l’atteggiamento del governo italiano nei confronti dei suoi prigionieri aveva assunto le dimensioni di uno scandalo internazionale e anche l’opinione pubblica nazionale cominciava a fare pressioni. Perciò nell’estate del 1918 il governo Orlando decise di inviare a spese dello Stato 35 vagoni di gallette in Austria e 15 in Germania. Era però troppo poco e troppo tardi e già decine di migliaia di soldati italiani erano morti per la fame e le privazioni.