Prof. Andrea Saccoman
Alle tre del pomeriggio precise del 28 giugno
1919 due emissari tedeschi in tenuta da cerimonia entrarono nella
Sala degli Specchi del castello di Versailles e si portarono al
centro della stanza scortati da soldati alleati. Erano Hermann
Müller, il nuovo ministro degli esteri, e Johannes Bell,
il ministro dei trasporti: erano lì per firmare il trattato
di pace che doveva concludere la prima guerra mondiale.
Essi passarono tra due ali di soldati con mutilazioni permanenti,
come ricordi viventi dei danni causati dagli Imperi Centrali.
Per la prima volta nella storia la cerimonia della firma fu filmata
dalle cineprese.
Müller e Bell fecero ritorno a Berlino la sera stessa, mentre
a Parigi si svolgeva una parata di artiglierie nemiche catturate.
I negoziati di pace si erano aperti cinque mesi prima nel Salone
dell’Orologio del Ministero degli Esteri francese. Il presidente
del Consiglio francese Georges Clemenceau volle che iniziassero
il 18 gennaio, anniversario dell’incoronazione di Guglielmo
a Imperatore di Germania nel 1871. Volle anche che la firma avvenisse
nella Sala degli Specchi di Versailles, il luogo in cui appunto
il 18 gennaio 1871 l’Impero tedesco era stato proclamato.
Ai rappresentanti delle potenze sconfitte (Germania, Austria.
Ungheria, Bulgaria, Turchia) non fu consentito di partecipare
alle trattative. Vi presero parte comunque le delegazioni di ben
ventisette paesi, ognuna delle quali composta di molte decine
di funzionari, ognuna con uno stuolo di impiegati, camerieri,
autisti. Furono presenti anche oltre 500 giornalisti da tutto
il mondo.
La conferenza della pace di Parigi fu un edificio gerarchico costruito
con grande cura nel quale il gioco era controllato dalle Grandi
Potenze vincitrici. Nei mesi di gennaio e febbraio due membri
per ognuna delle delegazioni di Francia, Regno Unito, Italia,
Stati uniti e Giappone si incontrarono nelle sale del ministero
degli esteri francese sotto la presidenza di Clemenceau. Il consiglio
dei dieci, come fu chiamato, cedette poi il passo al consiglio
dei quattro, composto da Clemenceau, David Lloyd George, Vittorio
Emanuele Orlando e Woodrow Wilson, che fu il primo presidente
americano a viaggiare all’estero durante il suo mandato.
Furono queste quattro persone che presero le decisioni essenziali
riguardanti i trattati di pace, spesso dopo vivaci discussioni
nelle quali emersero tutte le tensioni esistenti.
Mente i quattro capi di governo decidevano tutte le questioni
politiche, cinquantadue commissioni lavorarono su tutta una serie
di questioni tecniche: i nuovi confini, il destino delle minoranze
etniche, il risarcimento dei danni di guerra, eccetera.
Le procedure rimasero per mesi molto confuse. Nessuno aveva stabilito
né i tempi né le modalità in cui i negoziati
dovessero procedere.
Come capi di governo, i principali responsabili avevano anche
altri importanti impegni, per cui si assentarono anche per lunghi
periodi, come il presidente Wilson che dovette tornare negli Usa
per quasi un mese alla metà di febbraio. Un programma preciso
dei lavori fu fissato solo a metà aprile e solo allora
furono tenute minute di ogni seduta. Alla fine, malgrado oltre
cinque mesi di lavori, il trattato di pace con la Germania, composto
di ben 440 articoli, fu steso in grande fretta e le delegazioni
delle potenze vincitrici lessero il testo completo solo poche
ore prima che fosse inviato ai rappresentanti delle potenze sconfitte.
I quattro principali leader andarono a Parigi sotto il peso delle
aspettative delle rispettive opinioni pubbliche. Una comune preoccupazione
li univa: il ruolo della Germania nell’Europa del dopoguerra.
Per la Francia erano in gioco questioni di sicurezza e di giustizia:
dieci dipartimenti avevano conosciuto le distruzioni della guerra
e dell’occupazione nemica; un quarto dell’intera popolazione
maschile tra i 18 e i 27 anni d’età era morto. Clemenceau
era disposto a fare concessioni agli alleati, anche se non alla
Germania. Gli inglesi erano preoccupati di un eccessivo accrescimento
della potenza francese non meno che della potenza tedesca. Gli
italiani volevano tutto quanto era stato promesso loro nel trattato
di Londra del 1915 e anche qualcosa di più. Il presidente
Wilson, da parte sua, voleva una pace “giusta”, basata
su una sorta di accordo morale che egli chiamava con il riferimento
biblico di “Covenant”, ossia il “patto”
o l’alleanza stretta da Dio con il popolo ebraico.
Non voleva l’umiliazione della Germania e riteneva si dovesse
distinguere tra il popolo tedesco e i suoi governanti, che erano
per lui i soli responsabili della guerra.
Dopo la firma del trattato, gli articoli intorno ai quali di dibatté
di più furono il 231 e il 232. Il primo attribuiva la responsabilità
della Guerra alla Germania e agli Imperi Centrali, mentre l’altro
stabiliva che la Germania dovesse pagare delle “riparazioni”
per i danni di cui era ritenuta responsabile.
Benché “responsabilità” e “riparazioni”
volevano essere termini da intendersi in senso puramente giuridico,
sin da subito tanto per gli sconfitti che per i vincitori assunsero
il significato di una condanna morale che su tedeschi e austriaci
ebbe l’effetto di una vera e propria umiliazione, aggravata
dalle perdite territoriali, dalle sofferenze anche da loro patite
durante la guerra e dalla fine della grandezza imperiale.
Bisogna però tener presente che da parte degli alleati
era ancora viva l’impressione delle distruzioni sistematiche
praticate dai tedeschi durante la loro ritirata nell’autunno
1918, il duro trattamento inflitto alle popolazioni dei territori
occupati e ai prigionieri di guerra. Molti soldati francesi, non
appena seppero dei termini di pace, trovarono le clausole non
troppo dure, ma addirittura troppo morbide rispetto ai sentimenti
da loro provati per il nemico tedesco.
Per quanto riguarda la questione delle riparazioni, è quasi
un secolo che se ne discute e l’unica cosa certa è
che essa avvelenò le relazioni diplomatiche per tutto il
periodo tra le due guerre, usata come mezzo propagandistico dall’una
e dall’altra parte. A quanto pare, negoziato dopo negoziato,
e usando ogni mezzo possibile per ritardare o alleviare i pagamenti,
le riparazioni effettivamente pagate dalla Germania prima che
nel 1932 fossero per sempre sepolte non rappresentarono mai più
dell’8,3% del reddito nazionale lordo tedesco, mentre un
tempo si credeva avessero inciso per il 20 o anche il 50%.
L’altra cosa sicura è che la questione delle riparazioni
esacerbò in Germania un sentimento di rivalsa nazionalista.
Visto dopo un secolo, il trattato di Versailles appare come una
pace di compromesso tra la visione idealistica di Wilson e quella
più pragmatica di inglesi, francesi e italiani, tra gli
obiettivi di guerra di ogni nazione e la necessità di mantenere
buoni rapporti tra gli alleati, tra il desiderio di vendetta e
il bisogno di reintegrare gli sconfitti nel consesso delle nazioni.
Uno degli scopi dichiarati della conferenza della pace era quello
di riuscire a escogitare il modo di bandire per sempre la guerra
dal mondo: il presidente Wilson fu salutato come l’apostolo
della Libertà e per un breve periodo le speranze da lui
suscitate lo fecero diventare quasi un novello Messia.
Da ogni angolo del mondo arrivarono petizioni di ogni genere:
per il voto alle donne, per i diritti degli afroamericani e quelli
dei lavoratori, per il riconoscimento di uno stato ebraico in
Palestina, di una patria per gli Armeni e di una per i Curdi.
Assistiti dal tenente colonnello T.E. Lawrence, gli Arabi cercavano
nella nascita di un loro Stato la ricompensa per la loro rivolta
contro l’Impero Ottomano. Un giovane aiuto cuoco dell’Hotel
Ritz scrisse a Wilson per rivendicare l’indipendenza del
proprio paese e cercò in tutti i modi di ottenere un colloquio
privato con lui: questo giovanotto diventerà famoso con
il nome di Ho Chi Minh.
Per molti rappresentanti dei popoli extraeuropei la conferenza
della pace di Parigi fu la cartina di tornasole della volontà
delle potenze occidentali di mettere in pratica il principio dell’autodeterminazione
dei popoli. Poiché le speranze dei popoli coloniali andarono
in gran parte deluse, la conferenza della pace del 1919 fu anche
all’origine dei movimenti di decolonizzazione e delle prime
manifestazioni del comunismo in Asia, dove esso servì la
causa del nazionalismo meglio di altre dottrine occidentali.
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