Prof. Andrea Saccoman
È un fatto che la violenza della guerra
si prolungò nel dopoguerra in varie forme. Non è
però chiaro, e forse non lo sarà mai, se tale processo
di “brutalizzazione” sia stato un fenomeno che riguardi
in generale le società postbelliche e la loro vita politica
o sia invece un fenomeno che abbia interessato gli ex combattenti
come individui, e nemmeno se abbia toccato tutti i paesi belligeranti
in forme simili.
Il prolungarsi di forme di violenza armata nel periodo postbellico
è qualcosa di molto complesso e lo stesso termine di “violenza
armata” si può applicare a realtà molto diverse:
combattimenti tra eserciti regolari, come la guerra greco-turca
del 1920-1923 o la guerra russo-polacca del 1920-21; lotte ideologiche
multiformi, come nella guerra civile russa; la repressione dei
movimenti rivoluzionari tedeschi da parte dei gruppi paramilitari
chiamati Freikorps; la violenza sistematica contro gli avversari
politici praticata dalle squadre fasciste in Italia; atti “terroristici”
con finalità nazional-indipendentiste, come gli atti dell’Irish
Republican Army tra il 1919 e il 1921. Francia e Gran Bretagna
si trovarono ad affrontare una crescita di violenza nelle colonie:
in Algeria e Indocina per la prima, in India, Egitto e nel neoacquisito
Iraq per la seconda.
Le peculiarità di questi conflitti dipese molto dal tipo
di esperienza vissuta dalle singole nazioni nel corso della guerra:
se erano tra i vincitori o tra gli sconfitti, se avevano avuto
il territorio occupato oppure no, dalle dimensioni dell’adesione
dell’opinione pubblica allo sforzo bellico, dalla capacità
o meno dello Stato di incanalare o deviare la violenza dispiegata
durante la guerra, la posizione della nazione nello scenario internazionale.
Le ripercussioni mondiali della Rivoluzione bolscevica, la frustrazione
della sconfitta furono altri fattori. La disintegrazione di tre
imperi multinazionali (russo, austro-ungarico, ottomano) lasciò
in eredità al mondo del dopoguerra nuove tensioni etniche
e nazionalistiche: incidenti di confine, rivendicazioni territoriali,
movimenti di popolazioni, eccetera.
Nel 1919 vennero sgombrati i territori occupati e i vincitori
occuparono la Renania, e in tali zone si registrarono diffuse
violenze contro le persone e contro la proprietà. In Belgio
si assistette a una vera e propria caccia ai collaborazionisti,
ai profittatori di guerra e agli “imboscati”: nella
primavera del 1919 il processo contro i Coppées, padre
e figlio, imprenditori nello Hainaut accusati di essersi arricchiti
fornendo carbone ai tedeschi, infiammò fino al parossismo
l’opinione pubblica belga. Nel corso dell’inverno
1918-1919, in Alsazia, cittadini di ascendenza tedesca furono
espulsi in Germania anche se non avevano più alcun legame
con quel paese. In Renania le truppe occupanti si resero responsabili
di zuffe con i civili tedeschi, della distruzione del monumento
ai caduti della guerra del 1870-71 ad Ems, di insulti e prevaricazioni
nei confronti della popolazione civile.
La situazione della Germania era caratteristica perché
qui la sconfitta era attribuita al tradimento. Tra il 5 e l’11
gennaio Berlino fu scossa dall’insurrezione comunista passata
alla storia come Rivolta spartachista. Il 15 gennaio i due leader
della rivolta, Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht furono brutalmente
assassinati da membri dei Freikorps. Per alcune settimane le strade
della capitale tedesca furono teatro di scontri armati che per
violenza nulla avevano da invidiare alla guerra appena terminata.
I Freikorps furono ufficialmente sciolti il 6 marzo 1919, ma due
mesi dopo procedettero a schiacciare la “Repubblica dei
Consigli” di Monaco di Baviera, un altro esperimento rivoluzionario,
con una repressione brutale che fece 650 morti. Ai confini orientali
tedeschi i Freikorps furono usati per fronteggiare il rischio
di una espansione rivoluzionaria.
I firmatari dei trattati di pace del 1919-20 vollero limitare
i rischi di guerre future redistribuendo le popolazioni per costruire
una maggiore omogeneità etnica. Ma in Europa centrale e
nei Balcani i frammischiamento di lingue, etnie, culture e tradizioni
era talmente complesso da lasciare tutto quanto estremamente confuso.
In ogni caso, negli anni del dopoguerra circa 10 milioni di persone
lasciarono il loro paese di origine a causa dei cambiamenti di
frontiere.
Nel clima prevalente nel 1919 ogni distinzione tra civili e combattenti
svanì del tutto. La cosiddetta guerra civile irlandese
ne fu il miglior esempio: le famiglie dei militanti combattenti
per l’indipendenza erano considerati bersagli altrettanto
validi. I soldati britannici, appoggiati dai paramilitari dei
Black and Tans, commisero atrocità contro i civili. L’IRA,
dal canto suo, condusse una politica di intimidazione e rappresaglia
contro quanti erano considerati traditori o spie degli inglesi.
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Con il 1919 cominciarono varie linee di sviluppo che illustravano
ciò che per parecchi anni a venire sarebbe stata la difficile
transizione dalla guerra alla pace: un mondo agitato da gigantesche
tensioni ideologiche tra il comunismo e i suoi oppositori; il
più grande problema di rifugiati e profughi che il mondo
avesse sino ad allora conosciuto; frustrazioni, pregiudizi, voglie
di rivalsa…
Il 1919 fu però anche l’anno della Conferenza della
Pace e della fondazione della Lega delle Nazioni; fu l’anno
in cui chi era sopravvissuto alla guerra si rese conto di vivere
in un mondo fortemente interconnesso, globalizzato si direbbe
oggi, e che perciò le relazioni internazionali andavano
rimodellate tenendo conto di ciò. Per i sopravvissuti il
1919 fu soprattutto il momento dell’attesa, del lutto e
del disincanto: molti veterani ma anche molti civili si resero
conto che non avrebbero mai potuto liberarsi completamente della
guerra.
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